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Back In Time

“Murmur”, quando la musica sussurrava ai R.E.M.

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Era il 1983 quando quattro sbarbatelli del glorioso stato della Georgia, iscritti all’ università di Athens, decisero, dopo svariate prove durate alcuni mesi, di suonare insieme e di fondare una band. Michael Stipe studiava arte  e stava spesso in un negozio di dischi; la strana congiuntura economica che stava trafiggendo l’America sembra non colpirlo, anche se vive molte miglia lontano dalla Sun Belt.

È così che inizia il percorso di una delle bands più alternative degli anni Ottanta, un cammino durato quasi sei lustri (si scioglieranno nel 2011) durante i quali –per fortuna- i R.E.M. si allontanarono dal college rock per esperire altri territori, inventandone qualcuno e tracciando nuovi confini per quelli esistenti. Una caratteristica del loro primo periodo musicale alla quale resteranno felicemente ancorati è la presenza significativa di chitarra (Peter Buck) e basso (Mike Mills)  nei loro pezzi. Dopo l’ EP “Chronic Town” (1981), i R.E.M. sfornano un LP di ben 12 pezzi con L.R.S. Records; è il 1983 e “Murmur” viene ben accolto da tutte le radio universitarie che supportano il passaggio del singolo prima (Radio Free Europe) e dell’intero lavoro discografico poi. Scarso l’impatto con il mercato, solo 200.000 copie vendute ma la critica coglie che in quel disco, e in particolare in un brano come Perfect Circle e West of Fields che chiude la tracklist, ci sono in nuce le ballate che segneranno la generazione del decennio ’90 con l’ascolto e la condivisione di capolavori come “Document” (1987) e “Out of Time” (1991), dove si comincia a registrare la pioggia di dischi d’oro e di platino, arrivando a numeri di vendita seri.

In nuce, per l’appunto. Qualcosa che è accennato, che diverrà. Non tutti nascono enfant prodige come Mozart; i R.E.M. non lo furono certamente, con un disco che sembra la preview jangle pop di una garage band e che pure bisogna apprezzare all’interno del contesto in cui apparve. Più difficile comprendere sulla base di quali presupposti la prestigiosa rivista “Rolling Stone” lo avesse decretato disco dell’anno davanti agli U2 di “War” (ne possiamo parlare), a “Synchronicity” dei Police (ne dobbiamo parlare) e a “Thriller” di M. Jackson (ma di che stiamo parlando??).

Ciò che resta di “Murmur” è la conoscenza -che resterà sempre ammantata di mistero- della cripticità dei testi di Stipe, dell’ordinato –e talvolta studiato- caos delle liriche con il frequente ricorso alle anafore e alle epifore e che si traduce in sequenze video alienate ed alienanti, le quali attingono a piene mani dall’immaginario turbato di una generazione che, dietro l’angolo, troverà di lì a poco un nuovo rischio nucleare (novembre 1983).

Fu quel momento in cui il mondo rischiò di trasformarsi nel tabellone del Risiko in cui allo stato di allerta corrispose l’invio di sottomarini nucleari sotto i ghiacci dell’Artico da parte dell’impero del male. Fu quella volta in cui la lady di ferro ebbe paura di qualcosa, in cui l’edonismo reaganiano servì a  scongiurare una nuova Baia dei Porci e la perestrojka di un altro Micha si stava componendo come una musica nuova nella sua testa. E che diverrà la colonna sonora di un intero capitolo della Storia dell’uomo.

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