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“Violent Femmes”, il dizionario del punk acustico

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La storia vuole che fu la divina Chrissie Hynde, dietro consiglio del chitarrista James Honeyman-Scott, a dare la possibilità ai tre giovani buskers di Milwaukee di salire dalla metro dove suonavano per aprire un concerto dei Pretenders all’Oriental Theatre di New York: per il pubblico presente in sala, fu come mettere le dita nella presa della corrente elettrica.

I Violent Femmes celebrarono ufficialmente su quel palco il matrimonio illegale tra la purezza del folk e la sfacciataggine del garage rock, inventando di fatto il dizionario del punk acustico e anticipando la febbre che dall’altra parte dell’oceano avrebbe contagiato Shane McGowan e i suoi Pogues. La fama dei tre si propagò come il fuoco, e da lì a poco firmarono per il disco d’esordio con la Slash , l’etichetta che con gli X, i Gun Club e i Dream Syndicate aveva avviato il nuovo Rinascimento del rock americano.

Violent Femmes” era uno scrigno di diamanti grezzi e senza tempo in cui convivevano l’immediatezza e il candore adolescenziale di Jonathan Richman (quel mattacchione che suonava sull’albero in “Tutti Pazzi Per Mary”), e il nichilismo fulminante di Lou Reed, anche se più che i nipotini dei Velvet Underground i Violent Femmes sembravano la versione da coffee house dei Modern Lovers. Gordon Gano, il cantante e chitarrista, era un folletto invasato dal demonio del desiderio che ululava le sue frustrazioni post-adolescenziali sullo sfondo di una religiosità stropicciata e tormentata. Era figlio di un predicatore battista, e cantava i suoi gospel da marciapiede con una voce che arrivava direttamente dalle adenoidi. Lo accompagnavano i tamburi primitivi (un secchio rovesciato e due spazzole d’acciaio) di Victor DeLorenzo, un batterista che suonava sempre e solo in piedi, e il basso funambolico di Brian Ritchie, una specie di Jaco Pastorius dei poveri innamorato di John Coltrane.

Il 1983 fu un buon anno per il rock : uno dietro l’altro uscirono “Murmur” dei REM, “Swordfishtrombones” di Tom Waits, “Soul Mining” dei The The, “Hotenanny” dei Replacements, i debutti di Social Distortion e Metallica, e tanta altra bella roba che arrivava a rompere la rassicurante normalità delle classifiche del tempo. In mezzo al tutto, “Violent Femmes” spiccava per la difficoltà di trovare una collocazione a una band che prendeva il nome dallo slang usato per definire i transessuali che si prostituivano per strada e che in repertorio aveva canzoni imprigionate tra la rabbia, il disprezzo per la normalità e un’ironica autocommiserazione. Gordon Gano e soci cantavano di passioni irrisolte, confessavano collassi amorosi e peccati d’impurità, l’album ci mise un attimo a farsi notare e da subito i Femmes diventarono i beniamini della critica coi maglioncini a collo alto.

Intanto, i nerds di mezza America cominciarono a pogare al ritmo del loro punk-folk. Introdotto da una foto di copertina  divenuta tra le più iconiche della storia della musica, “Violent Femmes” sgommava subito alla grande col riff lussurioso e i saliscendi vocali di Blister In The Sun (ormai un classico del rock’n’roll), per proseguire col basso, la chitarra e i coretti sarcastici che si azzuffavano per la melodia di Kiss Off e Please Do Not Go.Sempre sul filo di un’esaltante nevrosi, in Add It Up e To The Kill la voce strangolata di Gordon Gano aggiornava le trame delle storie dei teenagers di Happy Days con un linguaggio da parental advisory. Tutto era fresco ed eccitante, persino il blues strascicato di Confessions e lo slow infarcito di violini e tristezza di Good Feeling.

I melodrammi da drive-in dei Violent Femmes riscattavano e liberavano il rock’n’roll dalla dichiarazione di morte che aveva fatto Sting, perché, come diceva Philip Seymour Hoffman in “I Love Radio Rock” : “….gli anni passeranno e i politici non faranno mai un cazzo per rendere il mondo migliore, ma in tutto il mondo ragazzi e ragazze avranno sempre i loro sogni, e tradurranno quei sogni in canzoni…”

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