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Crown – The End Of All Things

2021 - Pelagic Records
post dark wave

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Tracklist

1. Violence
2. Neverland
3. Shades
4. Illumination
5. Nails
6. Gallow
7. Extinction
8. Fleuves
9. Firebearer
10. Utopia


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Ed ecco che la galassia Pelagic torna a lambire un pianeta in evoluzione. Quel pianeta si chiama Crown, e la sua circonvoluzione attorno alla nera stella della musica evolutiva arriva al suo giro apicale con “The End Of All Things”.

È più di un anno che la fine di tutte le cose bussa alla nostra porta, e per quanto tentiamo di tapparci le orecchie per non sentirla, è ancora qui. Ma se l’album parla di fine, per il duo francese è un nuovo inizio. Dopo due album in cui il gradiente violento, seppur già immersi in quello che è il mondo sempre più oscuro della musica sintetica, con il loro terzo passo in questo universo raggiungono una vetta che né “Psychurgy” né “Natron” erano riusciti ad ottenere. Senza mezzi termini lo descrivono come quello che “Kid A” fu per i Radiohead, e così è. Non lo si legga come un paragone, ma come una stepping stone, un passaggio obbligato che alcune band sentono di dover affrontare, per esprimersi ed emergere, in un panorama il cui orizzonte è pieno di epigoni e ingombranti figure. I Crown non sono tra di loro, stanno altrove. Più in alto.

Stephan Azam e David Husser hanno in mente l’obiettivo, ed è quello di mettere le mani nel petto delle persone cambiandone l’umore a piacimento, e l’andamento dell’album è lì a dimostrarlo. L’impatto è di quelli che lasciano attoniti per un secondo o due, per poi prendere quota. I suoni si incanalano e creano un castello stratificato, altissimo, nelle cui stanze synth, batterie programmate, chitarre e gelo divengono un tutt’uno creando un percorso a una corsia verso ciò che il duo vede oltre la finestra del proprio mondo incontrando quello di tutti, che s’illumina e spegne, vive e muore, inizia e finisce.

Sebbene palesemente notturno, “The End Of All Things” è una notte punteggiata al neon, e il sentore dark in cui ci si imbatte non è unidirezionale, pulsa e riluce, è una strada a più corsie, le melodie che vanno via, prima o poi tornano, e il fulcro è la voce di Azam, con uno strappo ad un passato di grida perlustra tutti gli incavi delle proprie tonalità, un fulcro che sposta l’asse, su una produzione a dir poco gigantesca. Prorompenti batterie sintetiche che si abbattono sulle pareti della costruzione, spasmi dark wave e chitarre post che lambiscono e creano ambience siderali, ancor più algidi quando le sei corde tolgono l’elettricità, ibridi industriali tra trapano e lastra d’acciaio sbattuta, movimenti languidi e robotici che fanno da soli opera sci-fi mentre organi, clavicembali e sample si dividono la scena, dirompenti lamate di buio e freddo in un tunnel sul cui fondo si intravede l’infinito nella voce suadente e popadelica di Karin Park (direttamente dal distretto Årabrot), che rende Utopia un ragnarok soul da spavento.

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