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Back In Time

“Let Love In” compie 30 anni: Nick Cave e i semi cattivi germogliano nella disperazione

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In molte band dalla carriera pluridecennale si può identificare, con il senno del poi, il punto di svolta. Il momento a partire dal quale il loro ingresso negli annali della storia del rock’n’roll diventa irreversibile. Il momento a partire dal quale, tutto quello che fanno diventa un trionfo, a volte persino indipendentemente dalla qualità. Perché, una volta azzeccato quel disco, o quella striscia di dischi, ogni successiva opera diventa oggetto di culto, a prescindere.

Let Love In” è quel momento per Nick Cave & The Bad Seeds. Quel momento in cui i “semi cattivi”, così bene coltivati nei precedenti dieci anni e sette dischi, finalmente germogliano e ci permettono di raccogliere frutti prelibati. Non sto svalutando quello che è venuto prima. E ancor meno, implicando che da lì in poi Nick e compagni abbiano vissuto sugli allori, paghi di aver realizzato tanto splendore. Anzi, da quel momento in poi, i nostri non hanno praticamente più sbagliato un colpo, artisticamente e commercialmente. E ciò, malgrado le difficoltà personali vissute dal loro leader, tra dipendenze e tragedie personali, in questi 27 anni precisi che, oggi, ci separano dall’uscita di “Let Love In”.

Questo è il disco con il quale la band raggiunge il successo vero. Il primo disco d’argento, la Top 20 nel Regno Unito e la Top 10 in Australia, tutti territori nei quali non ha più smesso di muoversi dal 1994 ad oggi. Anzi, non facendo altro che migliorarsi fino a raggiungere, nell’ultimo decennio, uno status imperiale. Raggiunto, peraltro, anche grazie alla traccia ormai più famosa del disco: Red Right Hand che nel 2013 è divenuta la title-track di una delle serie televisivi più celebri della storia della TV inglese, “Peaky Blinders”. “Let Love In” è il disco in cui la musica dei dischi precedenti, da ex-punk sballati e determinati a trovare un timbro e un immaginario originali, da ultimo nel pur eccellente “Henry’s Dream”, assurge al livello di “immortale”.

Questo è un disco che parla di amore, come il titolo mette subito in chiaro e la parola magica viene ripetuta nei titoli di quattro canzoni su dieci. Ma la poetica del disco sta nella sua capacità di muoversi su un terreno pericoloso, oltre l’amore, dritti in un abisso di abusi. Do You Love Me?, la traccia iniziale, suona subito minacciosa fin dal giro di basso introduttivo di Martin Casey che fa tremare le casse. Il colpo di rullante di Thomas Wydler dà il via alle danze: sintetizzatori elettronici e poi un riff di piano cinematografico, suonato da Cave che ci dice subito che con questo disco sta alzando il livello. Lo conferma il coro, più minaccioso che mai: “Tu mi ami? / Tu mi ami? / Tu mi ami? / Tu mi ami? / Come io amo te”. Suona come un’offerta che non puoi rifiutare, una domanda a cui non conviene dare la risposta sbagliata. “Ho trovato Dio e tutti i suoi diavoli dentro di lei / Nel mio letto lei ha cacciato fuori la tormenta / Un sole finto ardeva sulla sua testa / Era completamente colma di luce / E la sua ombra era zannuta, pelosa e folle”. D’altro lato, anche l’oggetto del suo amore non appare così rassicurante.

Nobody’s Baby prosegue il disco e alza il livello della minaccia e del pericolo. È ovvio, scavando nel testo, che la protagonista non è più “la bambina di nessuno” perché è morta. E il narratore era il suo “uomo crudele” che l’ha punita per cose che “persino l’amore non permette”. Si anticipa qui un territorio macabro che Nick Cave & the Bad Seeds esploreranno compiutamente nel successivo “Murder Ballads”, sul quale potete consultare il nostro Back in Time di febbraio per saperne di più. Musicalmente, Nobody’s baby è la prima ballad del disco. Un disco che, a questo punto è chiaro, rappresenta un passo avanti rispetto al punk/post-punk da cui i nostri partirono nel decennio precedente, per germogliare in un rock gotico e epico.

Loverman sarà oggetto di una cover nientemeno che dei Metallica ed è la storia di uno stupro, dal punto di vista dello stupratore: disturbante. “Sarò il tuo amante, ho un piano preciso / Di toglierti il vestito e essere il tuo uomo”. Anche in questo caso il pianoforte tesse la tela della traccia, ma qui il ritornello qui esplode con forza grezza, punk e metal allo stesso tempo. Mentre Casey, imperturbabile, prosegue la sua linea blues di basso. Roba oscura: “C’è un diavolo che aspetta fuori dalla tua porta / Debole con il male e distrutto dal mondo”. Uno stupratore che si auto-assolve e, anzi, sembra dare la colpa alla vittima: “R is for rape me”, “stuprami”, le mette in bocca, facendo tutto da solo.

Jangling Jack scorre via in due minuti e mezzo di punk classico e apre la strada al capolavoro. Red Right Hand, dicono, sarebbe una canzone sul diavolo. “Un bell’uomo alto” che appare sullo sfondo di “una tempesta che si avvicina”, in un “cappotto nero polveroso / con una mano destra rossa”. La mano destra rossa è una citazione letteraria da John Milton, teologo e poeta inglese del ‘600, che cosi’ descriveva la vendetta divina. Ma, guarda caso, è anche un simbolo dell’unionismo nord-irlandese e di una loro organizzazione terroristica. Organizzazione che, con i dovuti adattamenti storici, figura in “Peaky Blinders”. La canzone è evocativa e suggestiva di una violenza infinita e sembra creata apposta per accompagnare al successo la (peraltro bellissima) serie televisiva nata vent’anni dopo, al punto che viene da pensare che la serie sia stata concepita attorno alla canzone. Di base sempre un blues, in questo caso sincopato e arricchito dalle campane e i timpani; Cave, novello Robert Johnson, fa capire che non si può prescindere dalla “musica del diavolo”, specialmente se si evoca il diavolo.

I Let Love In racconta quel che succede se si accetta l’esortazione del titolo. “Tesoro, tu sei la punizione / Per tutti i miei precedenti peccati / Ho lasciato entrare l’amore / Nella porta si apri’ solo uno spiraglio / Ma l’amore era scaltro e audace / La mia vita mi e’ scorsa davanti agli occhi / Un orrore da ammirare”. Non c’è nessun ottimismo possibile che possa germogliare nell’amore raccontato da Cave e dai suoi cattivi semi. Un’altra ballad, sostenuta dal pianoforte, un altro punk blues gotico e oscuro.

Thirsty Dog è un tipico rockabilly in 2/4, che narra di una sbronza ben triste: “Mi dispiace che esisto / E quando ti guardo negli occhi / Vedo che anche a te dispiace”. E si apre il sipario per un trittico finale di ballad lente e disperate: Ain’t Gonna Rain Anymore, Lay Me Low, Do You Love Me (Part 2). Qui, il violino di Warren Ellis fa appare per la prima volta nel sound della band, per sottolineare una disperazione completa. “E non pioverà più / Ora la mia bambina è andata / Ora non ho nessuno da abbracciare / Ora sono solo di nuovo”. E ancora: “Quando me ne andrò / Informeranno il capo della polizia / Che farà un sospiro di sollievo / Dirà che ero un delinquente, un bandito, un ladro”.

Alla fine è molto semplice il motivo della disperazione. Demoni, criminali, terroristi e stupratori vogliono solo essere amati e, in qualche modo, devono arrangiarsi. Questo disco introduce un tema che la band continuerà a esplorare nei lustri successivi, sotto angolature diverse, fino a “Ghosteen” recentemente. “Let Love In” è, a ben vedere, una lezione di psicologia basica. Alla fine del disco, il ritornello “Tu mi ami?” non è più un grido minaccioso, ma un lamento solitario e psicotico, reso perfetto dal contro-canto spettrale del violino che qui riproduce il riff pianistico che aveva aperto il disco. Il protagonista ora sembra parlare da solo e, se ascoltate bene in fondo al mix, si risponde persino da solo a un certo punto: “Sì, ti amo / Sei bello”. Quel che tutti vorrebbero sentirsi dire e basterebbe sentirselo dire più spesso per far sì che, senza timori, l’amore entri.

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