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Interviste

Il suono della memoria e del disordine: intervista a Nicola Manzan

Il progetto “La città del disordine. Storie di vita dal Manicomio San Lazzaro” va ben oltre il semplice disco (del quale comunque trovate qui la nostra recensione), è un documento importante per la memoria e nato dalla collaborazione tra i Musei Civici del Comune di Reggio Emilia e AUSL Reggio Emilia / Biblioteca Scientifica Carlo Livi e Nicola Manzan. Ne parliamo proprio con lui, approfondendo il tema principale dell’album e tutto ciò che vi ruota attorno.

Prima di entrare nello specifico dell’album, vorrei chiederti cos’è per te il “disordine”.

Per me il “disordine” è la mancanza di regole e logica, nel senso più ampio dei termini. Nel caso specifico, le vite delle persone che racconto nel disco erano caratterizzate da un forte disordine mentale, non a caso uno dei metodi utilizzati per curare i pazienti nel Manicomio San Lazzaro era quello di “riorganizzare” la loro vita, facendoli lavorare, tenendoli impegnati e cercare quindi di riordinarla.

Trovo l’idea di voler descrivere in musica la storia dell’ospedale psichiatrico di San Lazzaro, anzi, le storie che sono andate avvicendandosi al suo interno, sia ottima, soprattutto per quanto riguarda la memoria di realtà troppo spesso messe al margine, ritenute scomode e dimenticate una volta racchiuse tra le mura di istituti di vario tipo, ed è qualcosa di fin troppo attuale, anzi, mi sembra che l’idea di “memoria”, in particolar modo storica e sociale, stia venendo scombussolata da una sorta di “sottovalutazione del passato” (che cozza con la cosiddetta retromania in ambienti più “pop”), se non proprio ignorato volontariamente. Gli album di Bologna Violenta sono un ottimo esempio di impressione del ricordo di certi avvenimenti (per me “Uno Bianca” su tutti). Tu come la pensi? In che modo la musica, secondo te, può aiutare a ricordare e quant’è importante farlo per quel che viviamo oggi?

Mi trovo d’accordo con quanto hai affermato, ho proprio l’impressione che il passato non venga molto considerato, quando da sempre invece si dice che bisognerebbe conoscere la storia per non ricadere negli errori già fatti. La musica può essere un ottimo modo per veicolare messaggi, raccontare storie e catturare l’attenzione di un pubblico sempre più distratto. Nel mio caso lo faccio con la musica strumentale, che è quella che più mi si addice da sempre, cercando con le semplici note di creare forti suggestioni nell’ascoltatore. Credo molto nella sfera più “emotiva” della musica, ovvero nel fatto che essa può anche subdolamente (passami il termine) entrare nel cervello di chi la sta sentendo seppur distrattamente distrattamente e creare sensazioni molto forti. Se poi ci sono delle tematiche interessanti che fanno da sfondo, tanto meglio. Anzi, proprio per il suo essere per natura “intrattenimento”, può avere la possibilità di veicolare dei messaggi importanti, che possono essere recepiti in maniera più diretta da chi la ascolta. Non sono d’accordo con chi dice che la musica debba per forza avere dei “contenuti”, sono cresciuto con la musica classica che era in genere libera dal voler insegnare qualcosa a qualcuno, però penso anche che se dietro alla mera composizione c’è un’ispirazione, una storia da raccontare, quello che esce è più completo e spesso anche più forte. Quindi personalmente ho sempre cercato di creare musica sulla base di storie particolari, proprio perché ritenevo che certi fatti dovessero essere ricordati, magari da generazioni che per questioni anagrafiche non le avevano vissute in prima persona (come nel caso, appunto di “Uno Bianca“). È importante farlo, perché si possono trarre grandi insegnamenti da quello che è successo in passato e la musica, in questo momento storico che è all’insegna dell’usa-e-getta e dei contenuti che durano qualche minuto, può in qualche modo “fermare” i ricordi e quindi raccontare storie che rimangono più a lungo di quelle dei social.

Dici che ti sono state consegnate le cartelle cliniche di una ventina di pazienti e che di questi venti hai selezionato gli otto che vanno a comporre la narrazione dell’album. Cosa ti ha colpito di ognuno di loro, portandoti a scegliere di parlare di loro? Cos’hai provato leggendo queste storie?

Devo dire che alcune storie mi hanno particolarmente colpito; alcune sembrano surreali (ma lo sappiamo che la realtà può superare anche le fantasie più strane), altre sono talmente “normali” che mi hanno fatto pensare al fatto che al giorno d’oggi molte persone potrebbero essere internate senza troppi problemi. Difficile elencare le sensazioni che mi hanno suscitato, perché sono state molteplici, dalla malinconia alla frustrazione, al terrore che qualcosa del genere sarebbe potuto accadere anche a me. E non nego il fatto che in alcuni atteggiamenti dei ricoverati ho rivisto parti di me stesso e di persone che mi circondano, cosa che mi ha creato non poco disagio. Insomma: ho avuto modo di capire anche certi lati della mia personalità e, rendendomi conto di ciò, mi viene da pensare che queste letture mi abbiano tutto sommato fatto bene. Quasi tutte le cartelle che mi sono state consegnate contenevano storie che mi potevano ispirare, ma ho cercato di scegliere le otto che potessero rappresentare in qualche modo le tipiche cause di ricovero e quello che poi ne conseguiva una volta che il paziente entrava in manicomio. Si va da Arturo A., un giovane che a causa di una forte delusione amorosa era caduto nel baratro di una forte depressione che gli impediva quasi di parlare, fino a Concetta G., una bambina “nata ebete ed epilettica” (cito la cartella) che era completamente scollegata dal mondo che la circondava, rendendola un pericolo per sé e per gli altri, la cui prognosi era infausta, quindi senza possibilità di vedere un qualche miglioramento. In mezzo ci sono storie diverse, come quella di Adele B., che aveva avuto delle allucinazioni e per questo era stata internata, per poi tornare alla vita normale dopo pochi mesi, oppure la storia di Arcangelo M., un commerciante di cappelli con manie di grandezza e deliri mistici che, a causa della sifilide, rimarrà ricoverato solo per due settimane prima di morire. Insomma, una sorta di panoramica sui pazienti che venivano ricoverati lì, anche se effettivamente le cartelle cliniche contenute nella Biblioteca Scientifica Carlo Livi di Reggio Emilia sono più di centomila.

Come si è svolto il lavoro di scrittura ed esecuzione nei brani successiva alla scelta dei soggetti?

Dopo aver scelto le otto cartelle, ho studiato i punti salienti delle storie dei ricoverati ed ho cercato di creare delle melodie e delle armonie che fossero in linea con le diverse situazioni. A volte sono stato molto didascalico, altre volte meno, ma le strutture dei brani seguono un po’ lo schema che mi veniva fornito dalle cartelle stesse. Ho iniziato a scrivere dal piano elettrico, perché sentivo che potesse essere lo strumento giusto da cui partire, poi ho assemblato le varie parti per dare un senso compiuto ad ogni brano e, nel momento in cui sentivo che aveva un senso, ho scritto gli arrangiamenti. Una volta che le parti erano pronte ho registrato tutto con gli strumenti veri.

Il concept di “Bancarotta morale” e quello di “La città del disordine”, pur differendo nella sostanza e nell’intento, fanno riferimento a realtà che potremmo definire popolari, diciamo “storie non da rotocalco”, più nascoste e di vite ai margini. C’è qualcosa che potrebbe legare i due album, oppure che li spinge l’uno distante dall’altro, anche dal punto di vista prettamente musicale?

I due dischi sono a loro modo molto vicini, ma anche molto lontani. In “Bancarotta Morale” le storie sono molto romanzate, mentre in “La città del disordine” siamo di fronte alla cruda realtà, certificata da documenti ufficiali. Se nel primo caso alcune storie possono far sorridere, nel secondo non c’è niente di cui ridere. In quest’ultimo c’è molta più tristezza e malinconia, ma soprattutto le sonorità sono molto diverse: non ho usato la batteria, come prima cosa, ma soprattutto non ci sono le velocità tipiche dei pezzi di BV, anzi, a volte è tutto molto rilassato, a suo modo. Inoltre mi sono messo molti meno “paletti” di quanto io faccia di solito, non cercavo per forza la coerenza e la monoliticità che contraddistingue il mondo di BV, ho semplicemente scritto e suonato quello che mi serviva per raccontare le storie.

Organo, piano elettrico, sintetizzatori e archi. Sembra che questi strumenti abbiano un ruolo centrale nelle tue nuove composizioni. Perché hai scelto proprio questi anche nel caso di “La città del disordine”? Tra l’altro una cosa che mi colpisce molto dei brani è il modo in cui fondi una sorta di “sacralità” a temi popolari, interpolando le due cose, oltre a fonderle con situazioni invece più “sperimentali”, arcigne e meno semplici, diciamo.

Mi viene da pensare che questo disco sia musicalmente la conseguenza di quanto fatto nell’ultimo pezzo di “Bancarotta morale“. È un mondo in cui mi trovo particolarmente a mio agio: il violino è il mio strumento principale ed è quello con cui penso di riuscire ad esprimermi al meglio, l’organo penso sia lo strumento che mi ha fatto avvicinare alla musica seriamente, non a caso è stato il primo strumento che ho iniziato a studiare a cinque anni, anche se c’era stato in casa per un periodo un pianoforte su cui passavo le ore. Quindi forse è un po’ un ritorno alle mie origini, in un certo senso, anche perché non ho registrato nessuna chitarra nel disco, pur essendo il mio “secondo” strumento. Il fatto di usare temi di sapore “popolare” era una scelta praticamente obbligata, perché erano quelli che restituivano con maggior efficacia il senso di quello che volevo raccontare. La “sacralità”, come la definisci tu, rappresenta invece la parte più intima delle vite dei pazienti, volevo in qualche modo ridare dignità alla loro esistenza. Ovviamente non potevano che esserci anche dei momenti più complessi e sperimentali, al limite della cacofonia, perché la vita di queste persone era caratterizzata da momenti in cui il caos regnava nella loro mente. Devo dire che non è stato difficile mettere insieme queste differenti sonorità e caratteristiche, è stato un processo molto naturale, tutto sommato, del resto ogni storia aveva un filo conduttore che non ha fatto altro che creare un continuum anche a livello musicale.

Ogni giorno, a maggior ragione nella situazione che ha creato la pandemia, si legge di come, fin troppo spesso, non solo i governi ma anche i cittadini “comuni” ignorino situazioni psichiatriche e, più in generale, le condizioni psicologiche delle persone. Quanto di ciò che hai letto/narrato senti vicino a quanto stiamo vivendo in questo periodo?

Sono momenti storici molto diversi, l’emergenza che stiamo vivendo è un qualcosa che nessuno si aspettava e mi sembra abbastanza naturale che tutta l’attenzione “clinica” si sia spostata su quel fronte. Di sicuro molte persone hanno avuto bisogno di un supporto psicologico in questo periodo, perché è un po’ come se vivessimo una sorta di “arresto domiciliare” da un anno abbondante e non è semplice, anzi. La reclusione non piace (quasi) a nessuno, possiamo dircelo, quindi mi sembra normale che chi era più debole, in varie forme, ne abbia sofferto particolarmente. Mi sento però di dire una cosa: il San Lazzaro era all’avanguardia per i tempi, era infatti definito un “manicomio in forma di città” (da cui anche il titolo del mio disco). Nel periodo in cui erano ospiti i pazienti di cui racconto le storie, i mezzi di contenzione non c’erano più, si cercavano terapie alternative e poco “invasive”, anche se l’elettroshock era comunque usato, ma solo in alcuni casi. Come dicevo all’inizio, l’intento era quello di ristabilire l’ordine mentale, riportando i pazienti a fare, per quanto si poteva, una vita normale, facendoli lavorare e cercando di portarli alla guarigione attraverso una forma di normalizzazione del loro quotidiano. Ora è tutto diverso, abbiamo le terapie e le strutture adatte, fortunatamente c’è attenzione rispetto alle malattie mentali e alle loro cure. Però, ovviamente, in questo momento storico le priorità sono altre, quindi penso sia (tristemente) normale che ci si concentri più su altro.

Concludo domandandoti se è un’esperienza che amplieresti, magari in qualche lavoro futuro o se ce ne sono altre d’impegno sociale di questo tipo in cui vorresti immergerti.

Queste sono cose che capitano quasi per caso nella vita. Se i Musei Civici di Reggio Emilia non mi avessero dato l’opportunità di fare questo disco, non so se avrei mai fatto qualcosa del genere. Servono le conoscenze giuste per non fare qualcosa di scontato o poco interessante, oppure servono dei “materiali” specifici (in questo caso le cartelle cliniche) che non sono di facile reperibilità. Se mi verrà chiesto di ampliare o continuare il lavoro su questo fronte, penso che farò fatica a tirarmi indietro, perché è molto interessante e stimolante sotto tantissimi aspetti. Al momento non ho nessuna idea simile a questa, ma non si sa mai, magari un giorno troverò spunti per fare qualcosa del genere, magari su tematiche diverse. Del resto un anno fa non avrei mai immaginato di fare un disco come quello che sta per uscire. Quindi mi sento pronto ad affrontare con entusiasmo quello che mi riserverà il futuro.

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