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“Let It Be” dei Beatles: nudo o vestito, lasciate anche stare

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“Abbiamo ventinove tracce abbozzate, quasi venti takes per ogni canzone…ed è tutto scadente. È materiale mediocre e brutto”. Cosi Paul Mc Cartney si esprime in merito al materiale che The Beatles avevano messo in piedi nelle loro session del gennaio 1969. L’album scaturente da questo materiale “mediocre e brutto” avrebbe dovuto chiamarsi “Get Back” e per ben due volte il fonico Glyn Johns allestì gli acetati dell’album a maggio e a gennaio dell’anno dopo. In entrambi i casi, i quattro scarafaggi non furono soddisfatti e l’album non venne rilasciato. 

Nel gennaio 1970, Lennon registra e pubblica in poche settimane “Instant Karma!”, il suo terzo singolo da solista. Alla produzione, un grande ritorno: l’americano Phil Spector che, dopo avere sbancato il mercato discografico americano del pop e del R&B anni ‘60, veniva da qualche anno di riposo. Spector, a soli 30 anni, era già una leggenda del mondo musicale, grazie a quel suo distintivo stile di produzione bombastico, battezzato “il muro del suono” (“The Wall of Sound”, anche detto lo “Spector Sound”), da lui descritto come un “approccio wagneriano al rock’n roll”. L’importanza di questo approccio alla storia della musica va ben oltre l’enorme successo commerciale degli anni ‘60 che rese Spector milionario con hit quali You’ve Lost that Lovin’ Feelin’. La sua influenza arrivò al Prog e al Metal ed è  argomento che merita un articolo a parte. Quanto all’uomo Spector, è morto, probabilmente di COVID, il 16 gennaio scorso in carcere, al età di 81 anni, mentre scontava una condanna a 19 anni per omicidio di secondo grado. La storia del processo viene raccontata nel film “Phil Spector” (2013) in cui un grande Al Pacino ci regala una magistrale interpretazione della psiche malata del grande produttore.

Il lavoro che aveva fatto con Instant Karma! spinse John e il suo manager Allen Klein a pensare che Spector fosse l’uomo giusto per portare a completamento l’album mai completato dei Beatles. Il 23 marzo 1970, il produttore si mise al lavoro e in una decina di giorni termino’ la sua opera che sarà pubblicata l’8 maggio con il titolo definitivo “Let It Be”. Il giudizio sul risultato finale fu piuttosto controverso. “Non aveva niente a che fare con ‘The Beatles’. ‘Let It Be’ è un mucchio di merda. Spector ci ha vomitato addosso. Era disgustosamente sciropposo, in modo quasi ridicolo”, ebbe a dire Glyn Johns. Paul McCartney fu più diplomatico: Invece di un semplice produttore, ci ritrovammo con un ‘ricreatore’. Spector aggiunse una serie di cose che io non ci avrei messo. Non penso che abbia fatto il peggior disco al mondo, ma il fatto che ora altre persone infilassero nei nostri dischi cose di cui sicuramente almeno uno di noi non era al corrente, era sbagliato”. Ma Macca non poté impedirne la pubblicazione, messo in minoranza dal resto della band. “Sinceramente quel che fece Phil mi piacque”, disse Ringo. “Gli era stato dato del materiale davvero merdoso e lui è riuscito a tirarci fuori qualcosa. Quando l’ho ascoltato, non ho vomitato” , sentenziò John.

Fu forse questo finale disaccordo a spingere Paul il 10 aprile ad annunciare al mondo ciò che nel mondo discografico era ormai un segreto di Pulcinella: The Beatles finivano lì. Malgrado l’ostentata diplomazia e l’esortazione del titolo del disco, Paul non sarebbe mai stato capace di “lasciar stare”: aspetto’ 33 anni e fece uscire una nuova versione dell’album. “Let It Be…Naked” (2003) esprime le sue intenzioni già dal gioco di parole del titolo (“Lascia che sia…nudo”): via tutte le aggiunte di Spector che non compare più nemmeno nei crediti. Paul era particolarmente scandalizzato dal trattamento che avevano ricevuto le sue The Long and Winding Road e la stessa Let It Be: sovraincisioni, muro del suono di orchestra e cori e abbellimenti vari che pervadono un po’ tutte le 12 tracce. Persino le frequenti intermissioni parlate con cui John, più che tutti, faceva commenti tra un brano e l’altro e che vennero infilate dappertutto da Spector, ottengono l’effetto paradossale di far suonare l’album eccessivamente prodotto. 

Il paradosso di “Let It Be” è che, nelle intenzioni iniziali, doveva essere un ritorno alle origini, quando The Beatles suonavano live, senza sovraincisioni o troppe menate in studio. Un’approccio in parte reintrodotto con il precedente “White Album” e che ora si voleva portare al punto di filmare le sessioni dal vivo e coronare il tutto con un vero e proprio concerto, come la band non ne teneva dal 1966. In quanto al dove e come del concerto, le idee più folli vennero considerate: una crociera, un anfiteatro greco, un piccolo club londinese con la presenza degli scarafaggi tenuta segreta, il deserto del Sahara. In un raro momento di sobrietà e saggezza per una band che aveva ormai perso il contatto con la realtà, si optò per il tetto del palazzo che ospitava la loro etichetta, la Apple, nel centro di Londra. Dalla performance, Spector avrebbe preso tre tracce per l’album: I’ve Got a Feeling, One After 909, Dig a Pony.

Ma alla fine, il ritorno alle origini, la band che suonava insieme guardandosi negli occhi, in studio o in cima a un freddo tetto nell’inverno londinese, avrebbe ottenuto il risultato di esacerbare le tensioni e portarle al punto di non ritorno. “Let It Be” è quindi lo sforzo che mette la pietra tombale sul gruppo. I litigi di quel Gennaio sono ben documentati nel film omonimo e raggiungono lo Zenith il 10 del mese, quando George Harrison “lascia” il gruppo, esasperato per l’atteggiamento menefreghista di John e quello controllante di Paul. Nelle parole di Lennon: “Io e George dicevamo sempre: non ci va di farlo, fottiti, e cose così. Allora Paul s’impicciava e litigavamo su cosa fare e tutto il resto. Io me ne fottevo. Avevo Yoko. Non me ne fotteva un cazzo di nulla. Ero sempre fatto, bello pieno di eroina e altro”. E la sua reazione alla dipartita di George fu: “se non torna tra qualche giorno, chiamiamo Eric Clapton. E’ bravo uguale e non rompe così tanto”. Dopo intensi negoziati condotti da Ringo, George tornerà il 15 e si lavorerà fino al predetto concerto del 30. L’arrivo, l’ultima settimana, del mitico tastierista americano Billy Preston, invitato da George, aiutò a riportare un po’ di serenità: “È interessante notare come si comporta bene la gente quando porti un ospite. Nessuno vuol far sapere in giro che è un rompicoglioni” – sentenziò il chitarrista.

Chiuse le sessioni, il risultato fu comunque quello dipinto da Paul nella citazione all’inizio di questo articolo: mediocre e brutto. Il resto dell’anno passò con i quattro che iniziano a lavorare sulle proprie carriere soliste o extra-musicali (Ringo recitò nel suo secondo film) e con John e Paul che si sposarono (senza invitarsi a vicenda). Nel frattempo, i nostri tornano in studio, ricominciando con nuovo materiale e, con calma, tra febbraio e agosto assemblano “Abbey Road”, il loro stupendo, vero, canto del cigno, pubblicato a settembre 1969. A quel punto, la band non esiste più, anche se in pochi lo sanno. John se ne era andato senza annunci pubblici. La situazione rimaneva sospesa. Probabilmente si sperava che il tempo avrebbe sanato le ferite e che i quattro avrebbero potuto riconciliarsi. Rimaneva sospeso anche il disco registrato a gennaio: “Get Back”. E, come dicevamo, lo sforzo di produrre e rilasciarlo finalmente come “Let It Be” mise la pietra tombale sugli scarafaggi.

Ma, a parte la sua vicenda travagliata, la comparazione con “Abbey Road” fa comprendere il peccato originale del disco in esame: salvo qualche eccezione, l’ispirazione scarseggia e quando c’è viene frustrata dalle tensioni nella band. E’ il caso eclatante di Harrison: com’è possibile che del musicista che in quel 1969 scrisse cose come Something, Here Comes the Sun, My Sweet Lord, su “Let It Be” appaiano soltanto I, Me, Mine e For You Blue? La prima, nuda o vestita, è un’episodio superfluo della storia della musica. La seconda, musicalmente niente più che una blues jam, rimane tuttavia una delle cose migliori del disco per l’esecuzione straordinariamente compatta della band e l’inventiva nella strumentazione usata: una lap steel guitar per John e un “pianoforte preparato” per Paul. In ogni caso, durante quelle session di Gennaio, Paul e John perculavano continuamente il povero George, invece di assecondarne la favolosa vena compositiva che in lui stava emergendo e che già avrebbe dovuta essere loro chiara dopo While My Guitar Gently Weeps, peraltro.

E qual è il contributo musicale di John Lennon su “Let It Be”? Un bluesetto movimentato con un testo senza senso che l’autore avrebbe poi definito “buono per la spazzatura” (Dig a Pony). Un’esercizio di maniera, nel rock’n roll delle origini, definito eufemisticamente dal coautore Paul, “non un gran pezzo” (One After 909). Per il resto, Lennon è qui pervenuto nel bridge di “I’ve Got a Feeling” cantando: “Tutti hanno avuto un anno difficile”. E si sente.L’unica cosa veramente notevole che John ha dato all’album, è in realtà un’occasione sprecata: Across the Universe. “Pessima registrazione di un’ottima canzone. Ero molto deluso. Le chitarre erano scordate e io ero stonato”, questo il giudizio dell’autore che condividiamo. Andatevi ad ascoltare la versione contenuta sulla compilation “Anthology 2”: via il superfluo pianoforte di McCartney ei cori e l’orchestra aggiunti da Spector, eccola avvicinarsi allo splendore psichedelico ed etnico per cui probabilmente era stata concepita. Qui John è accompagnato solo da strumenti indiani: George alsitar e tambura e Ringo allo swarmandal.

In questo quadro, l’unico che poteva salvare il disco era il solito Macca. D’altronde,  come racconterà un dirigente della Apple, “Paul faceva quasi tutto da solo e gli altri erano poco più che turnisti di studio”. Va detto però che nemmeno lui da’ il meglio di sé. Let It Be è di gran lunga il pezzo migliore del disco, l’unico indimenticabile. Ma, ci spiace Paul, nella versione di Spector. Tolta l’orchestra, il riverbero sull’Hi-Hat di Ringo e l’assolo (stupendo) sovrainciso da George Harrison, la versione che compare su Let It Be…Naked non regge assolutamente il confronto, finendo per essere una simpatica piano ballad che avrebbe potuto scrivere Elton John, ma con molto meno pathos. Discorso opposto si potrebbe fare invece per l’altra piano ballad, The Long and Winding Road che, nella sua versione “nuda” riacquista una dignità discreta perdendo la melensaggine affibbiatagli dal produttore americano: non un capolavoro in ogni caso, a meno che non si sia fan sfegatati del pop di una volta con cui Paul era cresciuto.

Diciamo che questa è la canzone cui si adatta perfettamente la velenosa definizione data da Lennon alla produzione del partner: “musica per nonnette”. E non vi può sfuggire, sul disco, il commento con cui John,alla fine di Dig It, introduce Let It Be: “E ora, vorremmo suonare ‘Ascoltate! Gli angeli arrivano!’”. Una feroce presa in giro del supposto tono “a messa” della canzone. Che inserirlo sia stata un’iniziativa di Spector o una richiesta di Lennon, quando Paul ascoltò siffatto perculamento possiamo immaginare la sua faccia. In ogni caso, il resto delle composizioni di Paul che appaiono qui non è memorabile. Di nuovo, esercizi di maniera: gli Everly Brothers in Two of Us, il Rock’n roll nel caso di Get Back, il blues con I’ve Got a Feeling. Roba gradevole ma che uno come lui compone e esegue con una mano solo, mentre si fa un the con l’altra.

Alcune delle cose migliori del disco sono allora da rintracciare nel contributo di Billy Preston: il suo Hammond su Let It Be e il suo pianoforte su altre 5 tracce. Niente di nuovo per il grande artista R&B americano, per carità, ma sempre un bel sentire. Altra nota positiva è la maturazione di Ringo come batterista. Si fa notare come mai prima, per esempio su I’ve Got a Feeling o Get Back, con le sue invenzioni e i suoi stacchi. Ed è lui a conferire, con un groove serrato sul levare, il giusto feeling a For You Blue. Una maturazione strumentale che raggiungerà l’apice in “Abbey Road“.

Tutto sommato dunque, “Let It Be”, pur non essendo in realtà l’ultimo disco dei The Beatles, ma solo l’ultimo ad essere stato pubblicato, è condannato a essere il tipico ultimo disco di una band in declino, di cui si può fare a meno. Che si può “lasciar stare”. Nudo o vestito. Tutto ciò sia detto con riserva di vedere il docufilm “Get Back”, già previsto nel 2020 e poi rimandato a quest’anno, che si annuncia come un tentativo di far rivalutare ai fan quel momento della storia artistica dei Fab Four. Utilizzando ore di filmati inediti in cui, nelle parole di Ringo, c’erano “ore e ore di noi che ridevamo e registravamo, al contrario di quanto si è sempre detto. C’era un sacco di gioia. Sarà una versione piena di amore e pace, come lo eravamo noi”. Forse potrà farci cambiare idea sull’atmosfera di quel gennaio 1969; più difficilmente sul risultato artistico.





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