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Back In Time

“Tilt” di Scott Walker, musica da un’altra dimensione

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Quando penso al mio ascoltare musica molte volte mi chiedo quali siano i generi che prediligo perché a volte mi infilo in un vortice di definizioni. Ma quando penso al mio ascoltare un album in particolare, la mia domanda non si pone più poiché posso ascoltare qualunque cosa oltrepassando il genere e, nel caso di “Tilt”, non importa cosa sto ascoltando, ma da dove viene.

Ora non ricordo bene ma, in una rara intervista rilasciata da Scott Walker, il giornalista si stupì di trovarsi di fronte ad una persona solare e allegra, scherzosa e leggera. Si sarebbe aspettato invece una persona chiusa, riluttante nell’interagire cordialmente con un altro essere umano.  E invece Scott sorrideva, ma come? Come poteva la mente che ha concepito album come “Tilt” relazionarsi in modo così bendisposto? Il giornalista non riuscì a rispondersi. Io non ho la pretesa di riuscire a farlo ma lo faccio lo stesso.

Dopo l’avventura di successo con i Walker Brothers, Scott inizia la sua carriera solista alla fine degli anni 60 dopodichè, per farla breve, scompare. Si ripropone al mondo della musica solo nel 1984 con “Climate of Hunter” e poi, ancora, il nulla per altri 11 anni, fino al 1995 quando torna con “Tilt”. Il suo ritorno è segnato da un profondo cambiamento di stile, ritorna con una musica sperimentale, talmente oscura da formare attorno ai suoi anni di oblio un’aura di mistero che sfiora la mitologia. Suoni enigmatici pregni di testi criptici ai confini dell’ermetismo più distante da una qualsiasi voglia di comunicare sensazioni di superficie. Ed è un viaggio nell’oscurità della vita, fatto di sentieri, di brughiere e fattorie:

E se non sbaglio
Possiamo cercare di fattoria in fattoria
Buie case di campagna contro i nostri occhi
Ogni notte devo rendermene conto
Imbracatura sull’unghia sinistra
Continua ad appassire e appassire
Poi più in alto sopra di me

Così entra Walker nella opening track Farmer in the City, con una poesia enigmatica, parole lasciate uscire per dare forma all’aspetto di visioni spaventose sorrette da un velo d’archi, mentre quando arriva il background trip hop di The Cockfighter ti rendi conto che quest’album ha influenzato i più grandi esploratori di quegli anni, dagli U2 a David Bowie. (Sì, erano loro). Scott ci dona immagini e visioni di una una storia umana dilaniata da se stessa come in Bolivia 95:

Stanotte viaggio, sono un santo
Sto su questo pavimento di paglia
Le piastrelle screziate sempre più scureIntorno ai miei piedi

Tutte le maniglie che un corpo potrebbe gestire
Risparmiato, sono stato risparmiato
Tutta la polvere su una Maddalena Maria
Non suonare quella canzone per me
Non suonerai quella canzone per me
Quei fili che non indosseresti mai
I singhiozzi che potrebbero soffocarci
Quelle fatine dei denti, aspettate che arrivino qui
E l’aureola, aureola di locusta

Quest’ultima è una strofa che tuona in Bouncer See Bouncer con la sua voce baritonale che sembra volerti spostare da dove ti torvi, quella voce sembra volerti togliere di mezzo, perché vuole arrivare dove i tuoi sensi non arriveranno mai. Perché quella voce è la Forma, è Eidos. È lo strumento innervato dall’oscurità di chi ha lasciato i canali aperti e ha lasciato venir fuori. Per questo Scott sembrava normale durante l’intervista, perché è vero che l’oscurità sarà pur sempre stata dentro di lui per tutta la sua carriera, ma non posso dire se facesse parte di lui o lo attraversasse da chissà quale luogo, perché quello che sentiamo in “Tilt”, semplicemente, non è lui.

Quindi alla mia domanda sono riuscito a rispondere ma chi o cosa sia quello che ascoltiamo non lo so e non me la sento di domandarmelo. “Tilt” alla fine una cosa me l’ha insegnata: che non è importante che tipo di musica ascolti, l’importante è che arrivi da un’altra dimensione.

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