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Iosonouncane – IRA

2021 - Numero 1 / Trovarobato
avantgarde / sperimentale

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Tracklist

1. Hiver
2. Ashes
3. Foule
4. Jabal
5. Ojos
6. Nuit
7. Prison
8. Horizon
9. Piel
10. Priere
11. Niran
12. Soldiers
13. Fleuve
14. Sangre
15. Petrole
16. Hajar
17. Cri


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Avevamo imparato a conoscere Iosonouncane – moniker di Jacopo Incani – più di dieci anni fa, con “La macarena su Roma“, quando ancora le vesti erano quelle del cantautore che sembrava rifuggire da qualsivoglia schema e tradizione legati al genere, per rincorrere e fare proprio un linguaggio nuovo, rappresentato da un incessante incalzare di elettronica, loop e campionamenti, seppure in un profluvio di parole degno dell’epoca aurea del cantautorato nostrano. Correva l’anno 2010.

L’abbiamo ritrovato diverso con l’acclamatissimo “Die“, dai più considerato una delle opere più importanti della musica italiana di questo millennio. “Die” era un concept album la cui grandezza risiedeva, addirittura al di là delle brillanti e autentiche intuizioni musicali, nella capacità che ogni parola aveva di rappresentare un colpo di pennello, fino a raffigurare la storia di due amanti in un dipinto dai colori incredibilmente vividi: un uomo in mare che vede la morte e ha paura, una donna che ha paura di non rivedere più l’uomo. Su “Die” è stato detto tanto e la solita stucchevole ricerca per il paragone più indovinato, a tratti, ha anche finito per oscurare il trionfo della sintesi, pressoché perfetta, fra elettronica, psichedelia, pop e musica d’autore che l’album riusciva a incarnare quasi miracolosamente. Tra i due dischi passava esattamente un lustro, lo stesso intervallo di tempo che avrebbe dovuto separare “Die” da “Ira“, la terza fatica discografica del nostro.

Avrebbe dovuto perché, per dovere di cronaca, “Ira” avrebbe già visto la luce un anno fa, di questi tempi, senza pandemia, e avrebbe anche trovato piena esecuzione in una serie di date-evento in vari teatri della penisola. Da “Die a “Ira“, invece, sono passati sei anni, un arco che sembra infinitamente più ampio nell’istante stesso in cui ci si approccia per la prima volta a quella che, senza tema di smentita e al di là dei meri giudizi di valore, può tranquillamente essere definita come una delle opere più ambiziose della storia della musica italiana e che, con ogni probabilità, potrà essere realmente compresa e apprezzata in ogni sua piega e sfumatura in un futuro in potenza nemmeno troppo prossimo.

A proposito delle parole e della scrittura, “Ira” compie la prima enorme rivoluzione: non c’è nulla che possa essere appena canticchiato. Peggio: non c’è nulla che possa essere concretamente decifrato, come a voler ostinatamente comunicare incomunicabilità. Le liriche non appaiono nemmeno svuotate di senso, ma risultano giustapposte in quello che diventa il punto più lontano possibile dal concetto stesso di lingua franca. È ciò che Iosonouncane ha chiamato lingua dell’errore: italiano, spagnolo, francese, tedesco, inglese e arabo si fondono, rappresentano distanza e sradicamento, l’equivoco e l’occasione, le necessità più immediate, fino a farsi, nel contesto di un’opera così clamorosamente monumentale, più strumento che parola. Il trionfo del significante sul significato, della langue sulla parole

I pezzi sono diciassette, e forse già questo basterebbe per suggerire l’idea di un’opera poco calata nel presente storico e musicale, nel quale la durata dei dischi è mediamente inferiore rispetto a qualche tempo fa. La realtà è che, nelle sue quasi due ore di musica, “Ira” riesce a sfuggire da qualsiasi genere di collocazione, rimanendo in sospensione e dando la netta impressione di fluire da un periodo che ancora non si è vissuto. Per tutti questi motivi, raccontare “Ira” è operazione ardua quasi quanto tutta la ricerca che ha portato al suo effettivo compimento, che evoca innumerevoli riferimenti culturali, ma che va puntualmente oltre, rivelandosi sempre qualcosa di unico e sorprendente.

Hiver sgorga dal mare, in un clima perfetto da inizio viaggio: un crescendo lento, epicheggiante, metafora e premonizione ideale di quello che verrà. Ashes è già un momento parecchio più impegnativo, con un’atmosfera metallica, industriale e inquieta in un martellare ostinato e ipnotico che sembra figlio delle stesse pulsioni di Tanca, il brano inaugurale di “Die“, e che anticipa i primi richiami desertici ed esotici di Foule, immerso nelle voci lontane trascinate da un passo vagamente marziale. 

Sarà un tema ricorrente, per quanto qualcosa possa ricorrere in un lavoro come “Ira“, col passare dei minuti: in qualche modo, Jabal conferma la sensazione di una danza rituale ed esoterica, su una marcia via via più robusta e intensa, con le percussioni che ammiccano ai Goat di Requiem. Si addensano le tenebre nell’avvolgente Ojos, ricamata dagli archi, e si diradano in una più rassicurante Nuit, sebbene un nuovo climax marchi un leggero cambiamento d’umore. C’è addirittura qualche traccia di melodia nel pulsare infernale di Prison, che in coda si fa straniante e ricorda qualche passaggio de “La Macarena su Roma“, quindi ci si approssima a metà disco con le eleganti rarefazioni di Horizon e la solida cavalcata di Piel, in odore di Radiohead sperimentali.

Ira“, però, non diventa affatto più limpido con l’ascolto e, già con Priere, torna prepotentemente in un contesto che somiglia a un rito di passaggio, un attimo prima di iniziare una nuova danza intorno a un fuoco per esorcizzare una paura (Niran), fra timide aperture orientaleggianti e un’atmosfera nuovamente epica, conservata pressoché intatta anche da Soldiers, fra i pezzi più brevi del lotto. Fleuve ipnotizza con un vortice di voci cullate da una trama percussiva e da squarci elettronici e Sangre, che nella sua prima parte potrebbe ancora ricordare i Goat più morbidi ed educati, evolve in direzione sperimentale, pur rimanendo imperniato intorno al lavoro della chitarra, mentre l’ormai non più sorprendente densità di elementi, strutture e strati disegna lentamente il contorno, ancora con qualche profumo orientale che, a questo punto dell’ascolto, suona molto familiare.

L’ultimo scorcio di “Ira” è quello inaugurato da Petrole e dal suo finale in una tensione palpabile, dopo una prima parte dominata dalle voci. Quella stessa tensione percorre Hajar, delizioso tribalismo esotico in salsa prog, con synth oscuri e ancora stratificati a completare il quadro e, infine, dopo oltre cento minuti da Hiver, Cri sceglie un atterraggio più soffice, con un ritmo basso e qualche ricamo melodico, uscita ideale per un lavoro che ha già detto tanto e che, a questo punto, potrebbe ancora apparire oscuro.

In “Ira“, la forma canzone viene superata da strutture costruite e decostruite con altissima frequenza, ma che trasudano quella ricercatezza e quella cura che si incontrano solo di rado e che, in questo caso, sono il frutto di un lavoro lungo anni, di ore e ore di materiale e registrazioni, della mente di Jacopo Incani e della partecipazione di sette musicisti. Un lavoro magniloquente, ma con ordine, equilibrio e sostanza. 

Fra elettronica, (desert) rock, progressive e sperimentalismi di ogni tipo, “Ira” si configura come mera avanguardia, forse addirittura più nel concetto che nei suoni, comunque ascrivibili a categorie conosciute, al netto del naturale slancio verso l’ibridismo e la contaminazione che abbiamo sempre riconosciuto all’artista sardo. Com’era accaduto in passato, Iosonouncane confeziona un’opera mastodontica, tanto in termini di dimensioni, quanto di valore. E la sensazione è che, anche stavolta, potrebbe riuscire a lasciare una scia imperitura e rappresentare lo spartiacque per una nuova fase storico-musicale.

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