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Back In Time

“Sailing The Seas Of Cheese”, l’abbordaggio della follia dei Primus

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Ad un cugino di solito si vuole bene. Io gliene voglio senza dubbio, ma quando poi a 16 anni ti fa scoprire i Primus, allora scatta la vera riconoscenza incondizionata nei secoli a venire! Appena tornato dalla data veronese dello Zooropa Tour del 1993, le mie orecchie passarono in un istante dalla voce ieratica di Bono Vox ad un qualcosa che mai avevo ascoltato prima. Dalle luci notturne della Berlino post caduta del muro e dagli sconfinati deserti americani mi arrivò in pieno viso un’onda anomala corrosiva e gargantuesca. Fu amore a primo ascolto.

Non avevo ancora avuto modo di scoprire musicisti del calibro di Jaco Pastorius, Joe Zawinul, Glenn Branca, Frank Zappa, John Zorn, The Residents e tutto quello che di più angolare la musica mi avrebbe poi fatto scoprire e quel primo incontro con la musica dei Primus fu una vera folgorazione. Per la prima volta mi fu chiaro che i confini della musica, come quelli del regno di Fantàsia descritti nel romanzo di Michael Ende, erano davvero senza limiti.

Quel pomeriggio estivo lo ricordo ancora. Antonio, lui, mio cugino (…se mi stai leggendo,…ciao!), prende uno dei suoi tanti dischi e mi invita ad ascoltarlo. In copertina un veliero. Il nome della band è scritto con caratteri che mi ricordano le etichette di certe birre di importazione. Sono perplesso. Lo ammetto. Metto meglio a fuoco e noto che il veliero in copertina è immerso in un mare color giallo dove spiccano figure in plastilina. Le perplessità non svaniscono, ma inizio ad essere quantomeno curioso.

Cime di navi fantasma, consumate dal tempo e dalla salsedine, stridono facendo da sottofondo ad un contrabbasso le cui note introducono una voce sinistra e luciferina che si insinua in quella che è la prima traccia del disco, Seas Of Cheese. La mia attenzione è catturata. Un basso nervoso in levare preannuncia l’inizio della traccia successiva Here Come The Bastard. La voce è meno sinistra, ma ugualmente spiazzante. Finalmente fa il suo ingresso sua maestà la chitarra, lo strumento a 6 corde su cui l’intera storia della musica rock ha costruito il proprio mito, ed è la prima volta in vita mia che la sento fare da contraltare al basso. Non è più al centro dell’attenzione. Non ha più tutti i riflettori su di sé. La scena è completamente rapita, soggiogata, piegata al volere del basso. Sparisco dai radar. Dite a tutti che per i prossimi 60 minuti non ci sono per nessuno.

Dopo Sgt. Baker è la volta di American Life e sono già completamente in overdose, ma è con la successiva Jerry Was Race Car Driver ed il suo celebre giro di basso che fa da intro e da spina dorsale all’intera canzone che partono gli applausi a scena aperta. A distanza di anni l’unico e più rappresentativo commento possibile rimane sempre lo stesso: “Pazzesca!”. Is It Luck, Grandad’s Little Ditty, Los Bastardos e Sathington Waltz sono follia allo stato puro e descrivono benissimo l’approccio alla musica del trio nato a El Sobrante in California alla metà degli anni ’80. Testi schizofrenici, velocità, comicità grottesca, ghigni, smorfie, comics, hot dog, ma soprattutto musica suonata da Dio! Un’orgia dionisiaca di suoni accecanti e coloratissimi.

Prendete il funk, il metal, la polka, l’art-rock, la psichedelia, il prog, il jazz-fusion, mischiate con la cucina messicana, con il cinema di Jodorowsky, i sorpassi di Gilles Villeneuve, le temperature torride della Death Valley nel mese di agosto, frullate tutto quanto in un acceleratore di particelle e inizierete ad avere un’idea dell’impatto dei Primus sulla scena alternative degli anni ’90. Inutile cercare di catalogarli in un preciso genere, non solo perché sarebbe realisticamente complicato, ma perché non servirebbe assolutamente a niente. La musica è fatta di gusti, di pareri, di opinioni che spesso non s’incontrano mai e di chiacchierate che terminano all’alba, ore dopo la fine dell’ennesimo concerto visto assieme. E poi esistono le certezze, quelle che invece mettono d’accordo tutti, tra queste (…in ordine rigorosamente sparso) l’assolo di Comfortably Numb, il genio assoluto di Hendrix, quello dissoluto di Mozart, la voce di Freddy, la chitarra di Fripp, i dischi dei Led Zeppelin e, a partire dagli anni 9’0, lo stile di basso di Les Claypool.

Quello che lo ha sempre differenziato dagli altri bassisti, anche da quelli più virtuosi di lui, è sempre stata la capacità di aver fatto suonare il basso come mai (…o almeno mai su questo pianeta!), nessuno aveva avuto la follia di fare. Riff fluidi come acqua tra i gorghi di un torrente in piena o tessere di una collana che si sfilano e vorticosamente cadono a terra spargendosi sul pavimento. Un disco che a metà del suo ascolto è già storia della musica. E il meglio deve ancora arrivare.

Tommy The Cat è una vera discesa tra gli inferi in cui la voce cavernosa di Tom Waits si sposa perfettamente. Il dittico finale composto da Fish On (Fisherman Chronicles, Chapter II) e Those Damned Blue-Collar Tweekers è di quelli da brividi lungo la pelle. Da ascoltarsi e riascoltarsi fino a farsi sanguinare le orecchie, oltre che leccarsi le ferite frutto del pogo sfrenato sotto al palco! Una band gigantesca e che a differenza di molte altre della scena alternative americana di quegli anni, ha anche subito poche variazioni di formazione. Se da un lato Les al basso e Larry LaLonde alla chitarra ne sono stati la costante, dall’altro, Tim Alexander alla batteria si è preso qua e là un paio di pause di riflessione, ma la formazione storica e dalla chimica migliore rimane questa. Alcuni li hanno definiti come il duello tra chitarra e basso, con la batteria nel ruolo di arbitro, ma sono solo discorsi che si fanno e che lasciano il tempo che trovano.

A distanza di tanti anni “Sealing The Seas Of Cheese” rimane un disco potentissimo, di forte impatto innovativo ed espressivo e che fu solo l’inizio di un percorso disseminato di altri capolavori che non faranno altro che confermare il genio, il talento e la follia di una band davvero incredibile.

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