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Prospettiva Battiato: ricordando il Maestro

18 maggio 2021, il bilancio delle vittime è di 10 morti tra gli israeliani e più di 200 tra i palestinesi, e mentre in Medio oriente cadono i palazzi, nelle nostre orecchie non suona Where Is My Mind, ma un concerto di Battiato a Baghdad nel ‘92; la guerra del golfo appena finita, l’embargo ancora no.
Anni dopo in una intervista a La Repubblica diceva:

Quando mi hanno chiamato dall’ambasciata irachena e mi hanno chiesto di fare un concerto ho detto subito di sì […] Inutile dire che mi sono trovato contro mille persone. Sei pazzo, mi dicevano, vai cantare per il regime di Saddam Hussein. Non è così, ho sempre risposto; […] non trovo giusto che un popolo debba soffrire per colpe non sue […] Io ho portato musica.

Oggi ci piace pensarlo a suonare per israeliani e palestinesi indistintamente, nelle loro lingue o nella sua.

Era il 15 marzo 2009, l’ultima volta che vidi Battiato in concerto, era al Conservatorio di Milano, non ricordo la scaletta ma, come negli anni precedenti, il live iniziò con un pezzo lento per poi scatenarsi verso la fine in un ballo corale e forsennato. Ma un particolare mi colpì quella sera: una bambina, avrà avuto 7 anni, si mise sotto al palco, proprio di fronte a Battiato e lo fissò immobile, Battiato la notò subito, i due si guardarono, si fermarono e fecero tre passi veloci verso un lato della sala senza mai staccare lo sguardo l’uno dall’altra, perfettamente sincronizzati, come se le loro anime fossero identiche e si specchiassero dando vita ad un istante di danza e di intesa impenetrabile. Non so da dove provenisse quel passo, se da un vecchio videoclip, se dalle Sacre Danze di Gurdjeff ma in quel momento vidi con i miei occhi il ponte della musica che univa le generazioni, il ponte che scavalcava il tempo. Invece due anni prima, a Vigevano, un tizio dal pubblico gli urlò: “Nudooo”! Battiato si voltò e rispose: “Non arriverei a tanto”. Infiammò il pubblico di ilarità e gioia. (Massimo Quarti)

Non è una di quelle notizie che si digeriscono col chiodo e scaccia chiodo. La statura artistica e umana di Franco Battiato vive nella grande sua opera, nella poesia e nelle idee. Mi rimane oltremodo caro soprattutto perché lo ritenevo ancora un contemporaneo; mi nutriva l’animo durante questi ultimi mesi, ne presagivo semplicemente la presenza musicale radicata nell’attualità e mi riferisco al fatto che ruotano ancora nel mio impianto: “L’era del cinghiale bianco“, “La voce del padrone“, “Patriots” e varie altre perle musicali editate prima e dopo l’enorme successo popolare del 1981, ma in primis restano nel mio cuore i contenuti de “La voce del padrone“, di cui mi ha molto appassionato di recentissimo anche il documentario di Pino “Pinaxa” Pischetola, l’engineer di Battiato sin dai tempi di “Gommalacca“, che spiega le finezze di registrazione adottate nell’album. Ritornando alla metafora del chiodo, ecco, piango il Maestro, e il Rocker maggiormente, che mi lascia nel costato, almeno per oggi, un’altrettanta metaforica lancia spezzata nel costato. Nel maggio che esprime una primavera acerba, la sua morte ha un sapore pasquale e di resurrezione. I grandi della musica trasformano le cose ordinarie in divine, è proprio il caso di Franco Battiato. (Bob Accio)

Difficile dire quanto abbia significato per la musica italiana Franco Battiato. Di sicuro, senza di lui, certe sonorità sarebbero arrivate molto tempo dopo. Amava sperimentare. Era un intellettuale, oltre che un cantautore. Era anche un pittore. Era moltissime cose. “Riportami nelle zone più alte / In uno dei tuoi regni di quiete /  È  tempo di lasciare questo ciclo di vite / E non abbandonarmi mai / Non mi abbandonare mai”. Questi versi sono estrapolati dalla canzone L’ombra della luce dell’album “Come un cammello in una grondaia”, era il 1991. Battiato riesce a sprigionare calma e trasognata serenità. Non è un brano è un dono. In quello stesso disco c’è anche Povera patria, la più struggente poesia cantata in Italia di fronte allo scempio della bellezza e della dignità umana. Conosco a memoria il testo e penso sia una di quelle canzoni da conoscere perché canta la verità. Nell’aprile del 2014 usciva “Vuoti di memoria” di Pino Scotto, un album di cover che includeva anche Povera patria di Franco Battiato. Quando lo intervistai gli chiesi come mai scelse proprio quei componimenti da rivisitare nel suo disco e lui di getto mi rispose così: “Mi sono sentito in dovere di recuperare questi brani importanti di quei tempi scritti da autori solenni. La mia intenzione era fare una piccola operazione di musica-cultura, questo era l’obiettivo da cui partivo e spero di esserci riuscito anche per far conoscere a queste nuove generazioni dei pezzi storici importanti”. (Silvia Cinti)

Non ho altri appellativi per il Maestro se non definirlo come merita: il più grande di tutti. Senza tema di smentita, non esiste in Italia un artista così, al tempo stesso, completo, influente, ricercato e semplice. Iniziare ad ascoltare Battiato non è stato facile, di partenza non capivo se facesse sul serio o prendesse in giro. Pian piano la mia percezione si è umidificata, rendendo il terreno dell’ascolto fertile ai milioni di concetti espressi nelle sue canzoni. Shock In My Town mi ha fatto conoscere i Velvet Underground, ho pianto la prima volta che ho ascoltato Il vento caldo dell’estateTi sei mai chiesto quale funzione hai? mi ha messo davanti a me stesso e alla mia vita in modo definitivo. Sul piano musicale nella sua discografia non c’è un genere che manca, nei testi c’è ancora di più. L’elettronica, la sperimentazione, la psichedelìa, il cantautorato, l’avanguardia, i giri di accordi da milioni di copie, si accompagnano a testi filosofici, intimi, universali, riferiti a grandi intellettuali come al vivere comune. L’industria musicale lo ha inseguito a lungo, lui non si è lasciato prendere: a Sanremo ci è andato con la sua musica, senza compromessi; non l’ho mai visto promuovere un suo disco in televisione; non gli ho sentito dire mezza parola su quei baracconi simil-musicali che durano il tempo di una decina di puntate e che tutti ancora si otinano a chiamare talent show. Per me Franco Battiato è la teoria del tutto applicata alla musica. Una scatola dove dentro ci tieni le cose che ti servono, quelle veramente importanti da tirare fuori in un qualsiasi momento della tua vita. (Paolo Esposito)

Capire Battiato” non è solo un verso di una canzone dei Bluvertigo. Per Battiato ho sempre provato un duplice sentimento d’amore e “odio”. “Fetus” e “Pollution” sono parte dell’affezione, così come “Gommalacca“, un suo concerto, appena maggiorenne che fu il mio primo fuori porta, mi stese con quella potenza assurda e la capacità di far convivere tante cose in una, il colto e lo sfrontato, la musica alta e quella bassa. Di quell’amore fa parte anche la gratitudine per aver influenzato tanti gruppi del cuore (Disciplinatha, Bluvertigo, Soerba, Subsonica) ma anche dell’altro sentimento innominabile, ma anche sì, perché no, perché non ho mai patito la Trilogia, anche se oggi “Patriots” è ascolto fisso. È ovviamente colpa mia, lui lo disse che non era colpa sua se esiste l’imbecillità, e di tutti quegli “artisti” che pur non avendone capito nulla lo han citato giusto per darsi un tono, mettersi il vestito bello per andare al circo piazzandosi in mezzo al pubblico e imbolsendolo col nulla assoluto, peggio di quei santoni farlocchi che tanto odiava. Il vuoto che ha lasciato non è cosa nuova, ma oggi diviene definitivo e letteralmente incolmabile. (Fabio-Marco Ferragatta)

La scomparsa di Battiato non ha colpito solo la musica italiana e di tutto il mondo, ma anche altri campi come la filosofia e anche il cinema. Il bello dell’artista è proprio questo, un uomo eclettico, che va oltre i suoi limiti. Spesso questo viene riferito in maniera nascosta anche nei suoi testi, che con poche parole e in grado di raccontare e creare mondi vastissimi. Oggi ci soffermiamo sul suo lato musicale, come noi conosciamo molto bene. La musica di Battiato ha spesso guardato in direzione della canzone d’autore e del pop, due generi che ha rivisitato in maniera colta e raffinata, contaminandoli con stili musicali sempre diversi fra cui la musica orchestrale, il rock progressivo, la musica etnica e quella elettronica. I suoi testi, inusuali e di carattere citazionista, sono spesso dolenti e pieni di riferimenti polemici alla società dei consumi e alla classe politica italiana. Altri temi cari all’artista sono la filosofia, l’esoterismo, e il misticismo. Tuttavia, i primissimi album della sua discografia sono caratterizzati da un “sound” progressivo e sperimentale che spazia dall’insolito pop di Fetus al sound più rumorista di Pollution al minimalismo alla Terry Riley di “Sulle corde di Aries” Successivamente, Battiato rinuncia al formato canzone abbracciando l’avanguardia contemporanea giocata sul collage e sull’improvvisazione dell’organo o del pianoforte, segni di un forte interesse da parte dell’artista nei confronti di Karlheinz Stockhausen e John Cage. La fase sperimentale terminerà alla fine degli anni Settanta, ma Battiato ritornerà occasionalmente su questi passi come confermano i futuri Campi magnetici e Joe Patti’s Experimental Group. Potremmo anche citare le tantissime collaborazioni di cui ha fatto parte, ovviamente non verranno citate tutte, però vi invitiamo sicuramente a recuperare la recente collaborazione del 2016 con la formazione musicale italiana degli Stenopeica (fondata da Martino Nicoletti e Roberto Passuti), nella creazione del volume con “CD Kathmandu: Diario del Kali Yuga“. All’opera collaborano anche Teresa De Sio e Giovanni Lindo Ferretti. (Haron Dini)

C’è alle mie spalle un oceano di persone in grado di decifrare i simboli e i significati dei suoi testi più di quanto possa fare io. Del resto ho come suoi dischi di riferimento “Patriots” e “La voce del padrone“, due opere tra le più note e ascoltate del Maestro, a prescindere dal fatto che siano tra le massime espressioni del pop italiano tutto. Pertanto evito di dilungarmi sullo spessore di un uomo che dalle vette più alte dei faraglioni siciliani ha scorto il mondo intero, dalla Francia fino all’india passando per le terre anglosassioni, al pari di altri suoi conterranei (mi viene da pensare a Leonardo Sciascia ma da tutt’altra angolatura). Mi soffermo solo su una proprietà che sento mancare nella contemporaneità a ogni livello, musica compresa: la genuinità. Battiato riusciva a farti pendere dalle sue labbra a ogni performance, a ogni intervista, senza mai dare l’illusione di essere qualcosa di diverso dalla musica che cantava. Mutuando quello che scrisse Farabegoli quando morì Daniel Johnston “questo è davvero la musica che suona”. Ne uscivi arricchito a ogni ascolto perché riusciva a premere il tasto di ogni persona intelligente, ossia la curiosità, rafforzata dalla voglia di speculare sull’ignoto. Contro ogni spocchia, contro l’idea bastarda che l’intelligenza sia sapere tutto e non il non sapere abbastanza. L’ultimo grande musicista maieutico. Mi unisco al coro umilmente, in punta di piedi e senza fare rumore, per non disturbare il sonno di un uomo il cui silenzio peserà inevitabilmente negli anni a venire. “La musica contemporanea mi butta giù“; oggi ancora di più. (Andrea Orio)

L’uomo che non voleva essere chiamato Maestro. Quando ho avuto occasione di incontrarlo, l’impressione che mi riportavo a casa era che Franco Battiato fosse sempre misurato, a tratti sembrava infastidito da tanta attenzione verso la sua persona. Persino se lo ringraziavi per la sua Musica, tendeva a schernirsi; non ha mai voluto discepoli eppure ha fatto tanti proseliti e non solo dal punto di vista musicale. Ha viaggiato spedito tra le note, sperimentando il prog, l’elettronica e le covers dei grandi autori del nostro tempo da De Andrè a Brel, da Benedetti Michelangeli ai Carmina Burana. Sul palco, invece, si dava con grande intensità, forte della sua ricerca musicale e di tanto, tanto mestiere sulle tavole di legno, come fece nel cortile della Reggia di Caserta nel 2009 nell’ambito del Leuciana Festival in un concerto che fece scalpore per il terzo bis, durante il quale lasciò il pubblico a cantare per defilarsi elegantemente. L’uomo Battiato è morto oggi nella dimensione del suo corpo fisico, ma la sua anima era già altrove da molto tempo, ben lungi dalla malattia che lo ha colpito di recente; il suo punto di vista, quello da cui si osserva il mondo, è cambiato durante gli anni Ottanta. In Segnali di Vita (1981) Battiato cantava delle meccaniche celesti, come accade a chi ha i piedi ben piantati a terra e guarda le luci del Cielo; in “Mesopotamia” (1989), invece, chiede –forse retoricamente- a sé stesso “che cosa resterà di me, del transito terrestre“. Dall’alto della Costellazione che divenne la sua casa, Battiato ci regalò ancora musica e profondi spunti di riflessione, filosofica e spirituale, attraverso brani come La cura (1996) e gli album di “Fleur” (1999). Ma questa è la Storia che conosciamo, che abbiamo ascoltato e amato. Il resto della storia è Vita e ricordi, per un uomo che ha cambiato pelle mille volte per restare sempre un misterioso coacervo di dottrina e speculazione, cercando sé stesso per –forse- trovarsi. (Monica Lucignano)

Senza retorica alcuna, o almeno si spera. Per l’infinita bellezza della sua arte, per la sua eredità completamente estranea a qualsiasi dimensione temporale sia umanamente concepibile, per la sua musica, per quella che non sarebbe esistita senza di lui e per quella che non avrei mai nemmeno cercato e conosciuto se prima non avessi ascoltato un suo pezzo. Per il mondo mio e di ogni musicofilo che ha reso più ricco, più colorato e più aperto, o semplicemente più bello: grazie, Franco Battiato. (Piergiuseppe Lippolis)

Il rapporto che ho da sempre con Battiato e le sue parole è una sorta di timore reverenziale pieno di affinità spirituali. Se così posso definirlo. Lo stesso timore che si prova davanti a qualcosa che attrae, che chiama irresistibilmente, ma che nel contempo non si comprende fino in fondo e quindi si guarda con una certa timidezza, da lontano. Per questo chiudo qui il mio pensiero. In fondo, il viaggio è la meta. Perché le parole sono superflue ed io, di fronte a Franco Battiato, mi sentirò sempre un po’ insicura. (Arianna Me)

Te ne sei andato dopo anni di silenzio assordante, perfettamente coerente con quello che sei sempre stato, schivo e lontano dal caotico stardom musicale italiano. Per te hanno sempre parlato la musica e i testi, quei testi magnetici che mi hanno sempre affascinato, veri e propri viaggi verso paesi lontanissimi e culture diverse ma che riuscivi a rendere al contempo familiari. Magic Shop in particolare mi ha sempre trasportato con la mente in giro per le bellezze del mondo, in un melting pot lirico e musicale devastante. Non sei stato solo pop, solo cantautore, o solamente sperimentatore ma tutto questo allo stesso tempo, un privilegio che pochi possono vantare. Ogni tanto capita che di fronte alla scomparsa di un artista si uniscano tutti, senza alcuna differenza di gusti o opinioni personali e il tributo assordante ed il rispetto unanime a cui stiamo assistendo in queste ore rappresenta forse il tuo traguardo più grande. Dopotutto non ti chiamavamo Maestro mica per niente. (Enrico Ivaldi)

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