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Back In Time

“Out Of Exile”, la rinascita di Chris Cornell nel secondo disco degli Audioslave

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Non è del tutto chiaro cosa fosse successo alla voce di Chris Cornell in quei mesi di fine 2004 per arrivare a suonare come suona in “Out of Exile”. Stiamo parlando di colui che per quel che aveva fatto con i Temple of the Dog e i Soundgarden fino allora, poteva già essere considerato il più importante cantante della sua generazione rock. Per non parlare di quel che aveva fatto nel primo album della band formata con i transfughi dei Rage Against the Machine: Audioslave” (2002).

La storia narra che tra il primo e il secondo disco della band, per Cornell ci sia stato un divorzio, un nuovo matrimonio, una figlia, una riabilitazione per uscire dalle dipendenze tossiche che lo seguivano dall’età puberale. Il cantante di “Out of Exile” era quindi un uomo rinato, con una voce peraltro ripulita dagli abusi precedenti di alcol e fumo. I testi scritti dal cantante per questa raccolta di 12 canzoni non sono certo un capolavoro lirico; “al limite del ridicolo” ha scritto qualcuno, al cospetto di versi come “lasciate le piume sul pollo”. Ma, pur nei loro limiti evidenti, questi testi rappresentano un bel tentativo di toccare temi intimi e personali da parte di un uomo che, intorno ai quarant’anni, stava cercando di raccogliere i pezzi di una esistenza che (oggi lo sappiamo bene) non riusciva a sfuggire alla tragedia. Col senno del poi, il secondo disco degli Audioslave rappresenta per il loro cantante un raro momento di serenità e ottimismo.

Oppure, il segreto della voce di Cornell su questo disco potrebbe risiedere in qualche genialata del produttore o dell’ingegnere del suono. Stiamo parlando di mostri sacri come Rick Rubin (già all’opera sull’album d’esordio) e Brendan O’Brien (già con Cornell in Temple of the Dog). Non si sa sa se abbiano partorito qualche diavoleria tipo passare la voce di Chris tramite un imbuto di ferro bagnato in latte di vacca sacra, oppure applicarvi un filtro della consolle che solo quel giorno, grazie al sole della California (dove il disco è stato lavorato), ha attribuito questo effetto irripetibile. Non ho fatto ricerche al riguardo, né su Internet né su qualche rivista musicale accumulata negli scaffali di casa. Non m’interessa e non desidero nessuna spiegazione banale e razionale per questa magia.

Fatto sta che l’effetto è innegabile. Fatto sta che, per una volta, Cornell non suona come il depresso junkie che, purtroppo, è stato per la maggior parte della sua troppo breve esistenza. C’è speranza nella sua voce, una speranza che, come sempre, commuove. Che lo si ascolti distrattamente, mentre si fanno altre cose, o concentrati e a luci basse, quella voce entra dentro, come sempre fa Cornell. E, per una volta, non ti torce le budella, ma ti fa sentire libero. Come in un esilio conclusosi bene.

Di questo parla “Out of Exile”, cominciando dalla title-track che ha riferimenti precisi a sua moglie Vicky (“L’oceano mandò le onde / Nella figura di una donna / Per tirarmi fuori nel mare”) e a sua figlia Toni (“Il suo travaglio mi ha salvato / Anche se ho viaggiato a lungo nell’oscurità / Dal suo frutto sono abbracciato”). Certo, sapendo oggi quello che è successo quel maledetto 18 maggio 2017, la tristezza ritorna se uno pensa alla disperazione di Vicky, di Toni e degli altri che amavano questo sfortunato uomo. Ma in quest’articolo parliamo di quello che è successo piuttosto quel 23 maggio 2005, quando il disco uscì.

Tre anni dopo il primo “Audioslave“, l’attesa per un’altra prova del supergruppo era tale che negli Stati Uniti e altrove, “Out of Exile” schizzò subito al primo posto in classifica. La critica ebbe subito parole di giubilo per una musica che sembrava voler dare alla band una identità finalmente distinta, laddove la prima opera sembrava piuttosto “Rage Against the Machine con Cornell al posto di De La Rocha”. Effettivamente, il cantante sembra qui partecipare di più, anche al processo di creazione musicale e certe cose (ad es. Be Yourself) fanno pensare a certi momenti della sua produzione solistica successiva. Non è musica sperimentale, né di avanguardia questa. Mentre il riferimento ai Rage Against va sfumando, uno sente piuttosto scampoli di Beatles (l’inizio di Doesn’t Remind Me), Led Zeppelin, Black Sabbath e….Soundgarden. Un ritorno al passato, in altre parole.

Ma attenzione, perché Tom Morello è sempre in agguato con la sua Stratocaster “Soul Power”. Quando meno te l’aspetti e credi di stare ascoltando un disco di ballad o di buon vecchio hard rock, ecco che ti spara l’assolaccio metal o la progressione distorta, in quel modo che solo lui e lo riconosceresti tra mille. Prendi ad esempio, il suo exploit nel mezzo di Drown Me Slowly: puro Morello. Certo, non manca di esagerare a volte, ma questa e’ la sua cifra distintiva, piaccia o meno. Ma sa anche superare se stesso, come nell’assolo di Out of Exile o nello psych-rock di #1 Zero.

Ma se le due star del gruppo sono in ottimo stato di forma, non meno si può dire della affiatatissima sezione ritmica. Inserendola nel discorso, si apprezza bene “Out of Exile” non più come il disco di un supergruppo al pari del precedente eponimo, ma come il disco di una band nuova formata da quattro elementi tutti ugualmente importanti. Tim Commerford al basso e Brad Wilk alla batteria sfoderano un sound serrato e una base sonora possente. Parliamo di due grandi strumentisti che successivamente ci hanno deliziato in band come Black Sabbath e Puscifer, senza avere sempre avuto il dovuto riconoscimento per il contributo fondamentale dato al sound cui han partecipato. Musicalmente per niente timidi di fronte ai due compagni in prima linea sul palco, danno cuore e forza a ballad come Heaven’s Dead o The Curse e il giusto groove a riff come quelli di The Worm.

Proprio in questa traccia si sente chiaro il riferimento agli imprescindibili Led Zeppelin, se non fosse per l’assolo di chitarra alla Tom Morello che non è Jimmy Page e qui, sì, esagera. Invece Cornell, mentre canta “Sono rinato / Non posso fare del male”, appare come il Robert Plant messianico dei tempi d’oro, la cui voce ti entra dentro e dopo non vuoi più ascoltare un altro cantante per giorni. Questo è proprio quello che succede puntualmente con i migliori dischi del cantante di Seattle e “Out of Exile” è certamente uno di questi. La sua voce crea dipendenza, qualunque cosa canti. Non siamo sicuri se Cornell si possa definire un grande musicista. Troppo spesso il materiale con cui si è trovato a lavorare, da solo o in gruppo, non era all’altezza di tanta voce.

Non è il caso di questo disco che ha pochi momenti di noia e vari momenti di pura gioia. Senza doverlo riascoltare tutto, vi basta a questo punto prendervi 4 minuti e 49 secondi per ripassare bene la title-track e coglierete allora cosa era successo all’uomo e alla sua voce. E vi renderete conto che Chris sapeva anche dare voce alla gioia, come all’angoscia e se quello che esce dalla sua bocca è il modo in cui lui sentiva le cose che tutti noi sentiamo, c’è da stupirsi che ce l’abbia fatta per oltre 52 lunghi anni.

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