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Nick Cave and the Bad Seeds: “The Firstborn Is Dead” e il secondo ha il blues

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Era il 3 giugno dell’anno 1985 e i punk erano diventati post o, anche meglio, “new wave”. Almeno quelli che erano ancora vivi o che non si erano sciolti, chiaro. Cosa avevano a che fare i Talking Heads di ‘77 con quelli di Little Creatures? Il Paul Weller dei Jam con quello degli Style Council? I New Order di Low-Life con i Joy Division? I sintetizzatori erano dappertutto nei dischi e le parolacce, gli stivali militari, la droga, la ribellione giovanile avevano lasciato il posto ad abiti firmati, altri tipi di droga con altri effetti apparenti, canzoni d’amore.

Nick Cave e Mick Harvey avevano un’altra idea. L’eroina era ancora la loro droga quotidiana e l’oscurità si faceva strada in loro sovrapponendosi all’anima punk. Stufi di Londra, trovarono nuova linfa e libertà creativa a Berlino: “Berlino ci diede la libertà e l’incoraggiamento di fare qualunque cosa volessimo. Avevamo vissuto a Londra per tre anni e pareva che se tiravi fuori la testa dal tuo buco, la gente era ben veloce a rispingertela dentro. Soprattutto se eri australiano. Quando arrivammo a Berlino era il contrario. La gente ci vedeva come una forza piuttosto che soltanto una novità stravagante”.

L’essersi allontanati da una città che iniziava a vivere il diseguale boom economico della “rivoluzione thatcheriana” e dove l’industria musicale fioriva con i suoni degli Eurythmics, i Dire Straits, i Tears For Fears, permise a “Nick Cave and the Bad Seeds” di mantenere il controllo artistico. A Berlino ovest erano probabilmente ancora gli anni dei “Ragazzi dello zoo di Berlino”: una cittadella di libertà e decadenza occidentale circondata dalla costrizione e lo squallore del socialismo reale giusto oltre il muro. In quest’atmosfera, i due giovani australiani entrarono in studio con il tedesco Blix Bargeld e l’inglese Barry Adamson. E decisero di dichiarare il loro amore per il blues americano. Ma non il blues da apericena da strascico che Eric Clapton e Robert Cray stavano in quegli anni portando alle generazioni nate tardi per i Rolling Stones. Il loro era un blues oscuro, decadente e legato alla morte: cimiteri e aghi, invece che lounge bar e strisce bianche.

Non ci sono i sintetizzatori degli anni ‘80 in “The Firstborn Is Dead”. Cave si cimenta all’armonica, lo strumento dei bluesmen, mentre i suoi compagni alternano chitarra (anche slide), basso e batteria, all’organo e al pianoforte. È tutto qui il sound del disco: spettrale punk-blues. Il suono grezzo del punk e del blues delle origini, creato, in entrambi i casi, da ribelli senza educazione musicale formale, emarginati che non aderivano alle regole della società che li circondava; società che li condannava mentre li usava, per la licenza che si erano attribuiti di cantare le cose sconvenienti che gli altri non potevano cantare. Questa fu l’intuizione di “Nick Cave and the Bad Seeds” nel 1985, tra i primi punk o post-punk a riscoprire il blues, in un disco in cui Cave parla di morte per 40 minuti, oltre che delle altre cose che ossessionavano i vecchi bluesmen: il treno, la carcere, le alluvioni, il peccato….

Dal blues, la band prende anche la capacità di raccontare storie, elevando una volta per sempre quello stile teatrale e cinematico che già aleggiava attorno al suo primo disco. Il dramma che si svolge tra le note di questa seconda prova prende il via dalla morte del “primogenito”. Il fratello gemello di Elvis Presley è “nato morto” 35 minuti prima del “Re del rock’n’roll”, in una notte tempestosa e bagnata a giudicare dai rumori che aprono e chiudono Tupelo, traccia iniziale che prende il nome dalla città natale di Presley: “Un bambino nasce sui talloni del fratello / Domenica mattina il primogenito è morto / In una scatola di scarpe chiusa con un nastro rosso / Il re camminerà su Tupelo / Ha portato il fardello fuori da Tupelo / Hey Tupelo! / Raccoglierai quel che hai seminato”. Basterebbe fermarsi qui per consegnare il disco alla storia di quelli indimenticabili che, dal primo ascolto, ti entrano dentro con la forza dell’epica lirica e interpretativa di Cave e di una musica nuova, eppure così antica. Non siamo ancora ai livelli di Murder Ballads del 1996, ma la strada è segnata.

Say Goodbye To The Little Girl Tree è la seconda traccia. Un sommesso rhythm‘n’blues swingato che accelera e sale di volume, per poi terminare quieto e improvviso: “Tu sai che devo morire”. Le urla che aprono Train Long Suffering ci portano invece verso il rockabilly, emulando il woo-woo di un treno. Ma i testi rimangono su temi di morte: è un “lungo treno nero”, “nel nome del dolore e della sofferenza”. Black Crow King e’ un gospel a più voci, con minimo accompagnamento strumentale: “Sono il Re corvo nero / Guardiano del grano dimenticato / Il Re! Il Re! / Sono il Re del nulla”. Knockin’ On Joe è un blues lento che, sulle note del piano e dell’armonica, canta l’angoscia di un condannato nel braccio della morte. Wanted Man è una cover di Bob Dylan: “Se il diavolo viene a prendermi / Gli converrà tenere una pistola in mano”. L’arrangiamento in 2/4 del basico giro blues del premio Nobel, trasuda urgenza e paranoia; sotto un tappeto sonoro composto dalla cassa, dalla slide guitar, dal pianoforte e dal basso, i colpi di rullante e piatto di Harvey, l’armonica di Cave e le svisate di organo di Adamson lasciano senza respiro chi ascolta. Blind Lemon Jefferson, la traccia finale del disco, celebra il “padre del Texas Blues”, morto nel 1929 a 36 anni in circostanze mai chiarite: un infarto, un rapinatore, un cane feroce, una tempesta di neve? La band scrive per lui una intensa elegia funebre, come se fossimo al suo funerale: “Blind Lemon Jefferson sta arrivando / Battendo con il suo bastone” e ti sembra di sentire il grande musicista bussare alle porte dell’aldilà, annunciato dall’armonica. Ma per lui le cose non si mettono bene nell’oltretomba:“Ecco che arriva il treno del giudizio / Sali a bordo! / E gira quel grande motore nero verso casa / Rotoliamo! / Lungo il tunnel / Il tunnel terribile del suo mondo / Aspettando nella stazione finale / Come un terzo uccello più grande e più nero”.

Difficile trovare un pezzo più bello dell’altro in questo disco che, con il senno del poi, fu quello che indicò al mondo la grandezza speciale di questa band che nel 1985, tra fortune commerciali incerte e dipendenze tossiche certe, aveva ancora un futuro insicuro. “The Firstborn Is Dead” è una celebrazione della musica americana, fatta a Berlino ovest, da due australiani e due europei, punk e tossicodipendenti. Fossero finiti qui, Nick Cave and the Bad Seeds avrebbero comunque il non secondario merito di aver riconnesso il blues al punk, con un disco che ci spiega che i primi veri punk erano i bluesmen.

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