Impatto Sonoro
Menu

Back In Time

“Tigermilk”, i colori della solitudine nel disco d’esordio dei Belle & Sebastian

Amazon

Prima ancora di diventare il cantante di quella favola pop chiamata Belle & Sebastian, Stuart Murdoch imbrogliava la noia saltando da un autobus all’altro per girare Glasgow e frugare tra gli sguardi e i gesti di quella ordinary people che sarebbe poi finita nelle sue canzoni gonfie di pioggia sottile e dolci sospiri, malinconie à la Morrissey e sapore della torta della signora Wagner. Tra una corsa e l’altra Murdoch cominciò a frequentare una scuola per musicisti disoccupati dove conobbe Stuart David, un giovane bassista dal sorriso triste appassionato di letteratura col quale da subito condivise l’idea di allestire un’orchestrina folk-pop fatta da cuori in fuga, disadattati e sognatori. Il tempo di mettere insieme qualche demo, vincere un concorso allo Stow College di Glasgow e i due Stuart si trovarono con la possibilità di incidere qualcosa per la Electric Honey, l’etichetta del college.

Uno via l’altro, vennero reclutati i componenti della band: Isobel Campbell portò un violoncello e la tenerezza di una voce da primo bacio, Mick Cooke una tromba che sembrava uscire da “Forever Changes” dei Love, e Sarah Martin si presentò con un violino. Da subito, Chris Geddes diventò titolare alle tastiere, Stevie Jackson arrivò con una chitarra e la copia di “Blonde On Blonde” sottobraccio, e Richard Colburn, il rock’n’roll heart della compagnia, lasciò il biliardo per dedicarsi a grancassa e rullante. Preso il nome da una novella della scrittrice francese Cécile Aubry su un bambino (Sébastien) e il suo cane (Belle), i ragazzi incisero le canzoni di “Tigermilk” in cinque giorni, lasciandosi gli ultimi due della settimana per il pub.

Per la copertina Stuart Murdoch tirò fuori una foto di una sua ex intenta ad allattare una tigre-pupazzo di quelli che ti regalano al luna park e, oplà, il nome del disco arrivò di conseguenza. Stampato originariamente in sole mille copie, presto diventate oggetto di un culto quasi religioso, “Tigermilk” aveva canzoni affacciate sul bordo dell’adolescenza, a volte sussurava innocenza, altre confessava segreti e bugie e spesso ricorreva alle tinte pastello per raccontare il grigio della solitudine. Per la colonna sonora dei loro racconti brevi, i Belle & Sebastian s’affidavano alla tradizione del miglior indie-pop scozzese, rileggendola attraverso la lente di una sensibilità che una volta era appartenuta a Nick Drake: qua e là echi del garbo scanzonato dei primi Aztec Camera, del tono intellettuale di Lloyd Cole, dell’intonazione naif dei Pastels.

Per essere un inizio, “Tigermilk” suonava tutt’altro che acerbo e disarmato, e cantava la disillusione (la frizzante I Don’t Love Anyone) e la frustrazione (Expectations) fondendo sentimenti ed immagini con la levità di un twee pop morbido e disinvolto. La voce dolce e triste come un abbandono di Stuart Murdoch, familiarizzava con l’amore lesbico di Lisa e Chelsea in She’s Loosing It e quello impossibile di You’re Just a Baby, mentre la band ne assecondava i sospiri con un suono che era un trionfo di melodie appiccicose e ritornelli catchy. L’unico momento fuori contesto era la frequenza sintetica di Electronic Renaissance, un pò omaggio ai New Order un pò dichiarazione di lontananza dalla cultura del dance floor. La canzone più bella era The State I Am In: iniziava con la voce di Murdoch che sembrava una barca di carta nella tempesta e poi tutti gli strumenti che entravano come una dolce marea.

Si narrava di un ragazzo che al giorno del matrimonio della sorella si presentava con l’amico marinaio confessando di essere gay. Un sogno, forse, un po’ come tutta la storia dei Belle & Sebastian.

Piaciuto l'articolo? Diffondi il verbo!

Articoli correlati