Impatto Sonoro
Menu

Back In Time

“Sing To God”: la guida galattica dei Cardiacs

Oh my! we sang with strength to carry on
Encouraged him to sing along
We sang of all the world and praised him hooray!

Stay alive to live or without
And he is down all over and out

Oggi compie venticinque anni un disco che in un mondo parallelo probabilmente compare nelle liste e nelle retrospettive più autorevoli assieme a un “Sgt. Pepper’s” o un “Joshua Tree“, tra gli album fondamentali che ogni appassionato di musica dovrebbe conoscere e apprezzare. Ma la Storia non è stata affatto clemente con i Cardiacs. La stampa musicale li ripudiava, il pubblico spesso e volentieri ha riservato loro un’accoglienza tutt’altro che lusinghiera, e più di una volta il caso ha senza dubbio giocato a loro sfavore. Ciononostante, chi non li odiava provava per loro un amore puro, una lealtà e una passione accomunabili più a un culto pagano che a una fanbase musicale. Questa agguerrita schiera di sostenitori ha permesso loro di guadagnarsi uno status di “band di culto”, e talvolta ammiratori illustri come i Blur, Mike Patton o Steven Wilson. Ma al di là dei nomi celebri, ciò che lascia di stucco quando ci si addentra nei meandri di questa band, è l’estrema polarizzazione che ha scaturito. Da una parte il disgusto, dall’altra la devozione. Mai una via di mezzo.

La paradossale creatura di Tim Smith e soci è stata capace di plasmare una realtà alternativa nella quale la ferocia del punk e la raffinatezza del prog convivono pacificamente e in armonia. Ma non va ridotto il tutto a una mera questione di fusione di generi, i Cardiacs hanno dato vita ad un genere a parte, che inizia e finisce con la loro discografia (e quella di progetti-satellite come Sea Nymphs o Spratley Japs), che non funzionerebbe con nessun’altro artista all’infuori di loro. Ed è questa la qualità più incredibile da attribuirgli.

Ma torniamo al tema portante di questo articolo. Nel 1996, dopo vari cambi di formazione e la fuoriuscita di membri storici come il tastierista William D Drake o la sassofonista Sarah Smith, la band porta a termine il suo quinto lavoro in studio, un doppio album, enorme nella forma quanto nel contenuto. “Sing To God” è un’enciclopedia di tutto ciò che i Cardiacs sono e potrebbero essere; una mappa che conduce contemporaneamente in tutti i luoghi e in nessuno. Ogni nota, ogni riff, tappeto di tastiere, sferzata chitarristica, linea di basso, sembra essere sempre esistita in una dimensione superiore e resa percepibile solo nei solchi di questo disco.

È interessante notare come da un lato sia un lavoro che riprende e anticipa alcune tendenze del britpop di quegli anni, cita la new wave, il krautrock, lo shoegaze e un certo dream pop, ma dall’altro è un album che consolida e amplia un vocabolario unico e totalmente avulso dai linguaggi musicali correnti. Il sound dei Cardiacs ha sempre vagamente rimandato a sonorità più o meno definibili ma allo stesso tempo è impossibile ricondurlo direttamente a uno o più generi o discorsi musicali prestabiliti. Cori da balera e melodie cameristiche convivono anche all’interno di un singolo brano, come ad esempio in Dog Like Sparky e nel suo roboante ritornello, ma sarebbe sbagliato scambiare tutto ciò per manierismo o puro sfoggio di abiltà esecutive. Tim Smith definisce tutto ciò semplice musica pop, non c’è voglia di mettersi in mostra, ma solo una pura e innocente manifestazione di un estro artistico fuori da ogni schema, che ha portato avanti fino alla brusca e tragica fine della band nel 2008, causata da un attacco cardiaco che portò a una rara condizione neurologica chiamata distonia, della quale Smith ha sofferto fino alla sua scomparsa, il 21 luglio dello scorso anno. Ai posteri lascia in eredità una discografia che espande e arricchisce le coordinate della cosiddetta “popular music”, e questo disco ne è forse la massima espressione.

Un tale fulmine a ciel sereno però non sarebbe stato lo stesso senza l’apporto di Jon Poole, chitarrista e polistrumentista, attivo nei Cardiacs dal 1991. Oltre a suonare nell’album Poole ha arrangiato i brani insieme a Tim ed è straordinariamente autore di alcune canzoni, come Bell Stinks, A Horse’s Tail, Manhoo e Angleworm Angel. Abbiamo chiesto a Jon di parlarci della sua esperienza nella band e della genesi di “Sing to God”. Questo è quello che ci ha raccontato.

Quali sono le tue maggiori influenze musicali?

C’è una lunga lista di musicisti e songwriters che ammiro ma quelli le cui tracce riesco a percepire nella mia musica sono Andy Partridge, Frank Zappa, Gary Numan, Genesis, Bernard Edwards/Nile Rogers, Adam Ant, Lennon/McCartney, Riuichi Sakamoto, Sex Pistols… e altri ancora. Qualsiasi influenza abbiano avuto queste persone viene inevitabilmente plasmata e nascosta passando attraverso “il processo”, componendo, registrando, ma so che da qualche parte è rimasta.

Come sei entrato nei Cardiacs?

Con Bob Leith ero in una band di nome Ad Nauseam, eravamo fan sfegatati dei Cardiacs. Nell’89 abbiamo seguito ogni tappa del loro tour e abbiamo conosciuto Dominic Luckman (batterista) nelle occasioni in cui ci facevano entrare a vedere il soundcheck. Ci siamo subito resi conto di avere molto in comune, in particolare i nostri ascolti musicali del tempo, così gli diedi una cassetta contenente alcuni vecchi brani del nostro gruppo. Gli piacque molto e lo fece ascoltare a Tim e al resto della band, tutti lo apprezzarono e da quel momento siamo diventati sempre più amici.

Al nostro primo concerto con gli Ad Nauseam Dominic fece un’ospitata alla batteria e Tim venne a vederci. Bic (chitarrista dall’89 al ’91) aveva appena lasciato i Cardiacs e c’era la necessità di un nuovo chitarrista. Dopo molte riflessioni chiamai Tim chiedendogli un’audizione. Lui mi disse che non ne avevo bisogno ma che prima avrebbe dovuto riferirlo agli altri. Dopo alcuni giorni mi richiamò e, dopo avermi stuzzicato fingendo di non volermi nella band, mi disse che il posto era mio. Saltai sul primo treno per Londra e facemmo ciò che ci riusciva meglio… ubriacarci.

Tu e Bob Leith suonavate insieme negli Ad Nauseam prima di ritrovarvi nei Cardiacs. Come descriveresti il suo stile alla batteria e la vostra duratura collaborazione?

Il suo stile era certamente non ortodosso. Ricordo di aver mostrato a mio fratello un video di una nostra prova nella mia camera nell’89 e il suo commento fu “wow, se togliessi il volume e vedessi solo Bob suonare senza sentirlo penserei che non sappia suonare!” Lui ha il braccio piegato in modo strano da quando se lo ruppe da piccolo e se lo vedi suonare è molto divertente, soprattutto quando si allunga sui piatti. Ma il suo approccio allo strumento è sempre al servizio della canzone. È un ottimo cantante e un amante degli accordi particolari, è ossessionato con John Barry. E ha l’orecchio assoluto. Suona anche la tastiera, in un modo piuttosto bizzarro, per scrivere canzoni. Non ha idea di quali siano le note che sta suonando e quindi tutto ciò che fa nasce dal puro istinto, ma la musica che crea è inconfondibilmente “sua”. Ci siamo divertiti molto con gli Ad Nauseam. Di solito io scrivevo la musica e lui aveva totale libertà nella creazione delle melodie vocali, e inoltre ha sempre scritto tutti i testi. Mi è sempre piaciuto lavorare alla musica scritta da lui, proprio perché da essa emergeva totalmente la sua essenza. Bob è molto più di ciò che gli sia mai stato riconosciuto. Adoro quel tipo.

Quali sono i tuoi ricordi delle registrazioni di “Sing To God”?

Estate 1995. Per me è stato il periodo più bello nella band. Eravamo appena tornati da un tour con i Sidi Bou Said (gruppo inglese di inizio anni ’90, in formazione Claire Lemmon e Melanie Woods, che entrarono successivamente a far parte dei Cardiacs) che Tim stava producendo. Fu un tour davvero piacevole e vivace, e quello spirito proseguì anche in studio di registrazione. Portammo tutto il materiale a casa di Jim (bassista e fratello di Tim). Eravamo in campagna, niente vicini, avevamo tutto il posto per noi. Ogni sabato organizzavamo feste con i nostri amici, riducendoci in stati impervi. Ma i momenti delle registrazioni erano molto produttivi, c’era un’atmosfera incredibile. Eravamo tutto il tempo in un ambiente felice.

“Sing To God” è il disco più collaborativo dei Cardiacs, tu hai suonato chitarra, basso, tastiere e hai avuto un ruolo fondamentale nell’arrangiamento e nella costruzione dei brani. Qual era il processo di lavorazione alle canzoni in studio?

La maggior parte dell’album è stata registrata a casa di Jim e mentre eravamo lì Tim mi faceva spesso ascoltare versioni abbozzate di arrangiamenti, che di solito consistevano in batteria programmata e organo con melodia e accordi (anche se a volte c’erano anche ulteriori parti di tastiere). Io le registravo su cassetta e le andavo a sentire in giardino con il mio Walkman. Lì trovavo i vari riff di chitarra e basso che registravo immediatamente per non dimenticarmeli. Tutto questo al sole con gli uccelli che cinguettavano attorno a me. Nel frattempo Tim era in studio a registrare. A un certo punto arrivavo io e aggiungevo le nuove idee abbozzate in giardino, Tim mi seguiva passo passo, facendo il lavoro di produzione e dandomi le giuste dritte. Tutto ciò andava avanti per giorni e giorni, era una sorta di bizzarra e psichedelica catena di montaggio ma funzionava davvero bene, e in più era veramente spassosa. Per le canzoni scritte da me, le avevo registrate in un Portastudio a quattro tracce (l’assolo di chitarra di Angleworm Angel è preso direttamente dalla mia demo). Manhoo invece la suonai direttamente a Tim con la mia chitarra acustica e lui disse “facciamola!”, così ci lavorammo insieme dall’inizio. Quella è stata l’unica volta che abbiamo lavorato così e devo dire che fu molto liberatorio!

Le canzoni che hai scritto per l’album sono inequivocabilmente riconoscibili come brani dei Cardiacs in tutto e per tutto. Scriverle è stato un processo consapevole o qualcosa di naturale?

Beh, quando avevo undici anni e cominciavo a scrivere canzoni, alcune di esse avevano già elementi di ciò che poi divenne musica “alla Cardiacs”. Ne suonavo alcune a Tim qualche volta e gli dicevo “senti un po’, sembriamo noi!” Quando ho scoperto la musica dei Cardiacs questa ha avuto un impatto enorme sulla mia scrittura. Poi lavorando con Tim, che al tempo vedevo come una specie di mentore, ho imparato un sacco di trucchi e stratagemmi, e il mio modo di scrivere era diventato inevitabilmente assimilabile al suo mondo. Non era soltanto una cosa del tipo “ecco un pezzo nello stile dei Cardiacs”.

Dal punto di vista della produzione, Tim Smith ha un tocco molto personale e distintivo, che ha reso i suoi album particolarmente unici per quanto riguarda i suoni. Lavorare con lui ha cambiato il tuo modo di lavorare a un disco?

Sono molte le cose che ho imparato in quel periodo in termini di arrangiamento e produzione. Penso che in quanto a suoni Tim abbia il suo particolarissimo stile, nient’altro suona come i suoi dischi, né dovrebbe, ma tra noi due ci sono delle differenze sostanziali nel nostro modo di lavorare. Nel missaggio tendo a definire maggiormente i bassi, lascio un po’ più di spazio e preferisco mettere le voci un po’ più in evidenza rispetto a come farebbe Tim, ma non è assolutamente una critica al suo modo li lavorare. E’ una questione di gusti personali. Tim ha un suo specifico suono. Probabilmente io ho un gusto più tradizionale nella produzione e il missaggio, ma adoro tutto quello che ha fatto, è qualcosa di unico che nessuno potrebbe e dovrebbe replicare. Bisogna cercare la propria voce.

Come avete fatto a replicare quegli arrangiamenti così complessi dal vivo?

Non avevamo un tastierista dal vivo perciò dovevamo utilizzare quelli che ora sono chiamati “stems”, ma che all’epoca chiamavamo “backing tracks”, nastri preregistrati che venivano suonati tramite un registratore Fostex a bobina. Siamo passati al digitale all’inizio degli anni 2000!

C’è una canzone o un particolare momento in “Sing To God” del quale sei particolarmente fiero?

Delle mie canzoni Manhoo è probabilmente quella che ritengo la migliore che abbia scritto per i Cardiacs e sono molto contento di come è stata registrata. È anche diventata un singolo I brani che porto maggiormente nel cuore sono quelli ai quali non penseresti immediatamente, come Flap off your Beak, Odd Even, Fairy Mary Mag o Foundling. Per qualche ragione mi fanno rivivere l’essenza e il profumo di quel momento. Come ho già detto, eravamo in stato di grazia e quelle canzoni catturano esattamente quello spirito.

Sing To God” è considerato da molti il miglior disco dei Cardiacs, quali sono i tuoi pensieri a riguardo 25 anni dopo?

È difficile essere obiettivi in questo caso, per me ha il peso che ha data l’esperienza che ho avuto nel realizzarlo, una bellissima esperienza. Avrà sempre un posto speciale nel mio cuore. Ne sono particolarmente orgoglioso, soprattutto vedendo quante persone ne abbiano un forte legame. Sono felice che abbia significato così tanto anche per una generazione più giovane. Ancora oggi mi capita di incontrare ragazzi che suonano in band indie che amano quel disco. A parte qualche inevitabile influenza, non credo che nessun altro album suoni in questo modo, perciò non credo che possa mai invecchiare.

Black dog, white dress
Hand holding with her wireless
Kind whistling on when she passed
From this world off into the next

Piaciuto l'articolo? Diffondi il verbo!

Articoli correlati