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“Red Medicine” dei Fugazi, uno splendido lavoro di rottura

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Esistono diverse tipologie di band; ci sono le meteore che fanno un disco importante e poi non riescono a ripetersi o si sciolgono subito dopo, ci sono quelle che lasciano il segno aprendo nuove strade, altre che ci provano una vita a fare un lavoro veramente imprescindibile sbattendo contro un muro ogni volta, quelle che scimmiottano altri gruppi o artisti o che vivacchiano nell’anonimato per anni, quelle che si accontentano di fare dischi accettabili o carini sopravvivendo, quelle che fanno per anni sempre lo stesso disco, le band che fanno oggettivamente cagare ma hanno comunque seguito, quelle da slogan politici, quelle che vogliono fare gli intellettuali o senza poterselo permettere oppure annoiando dopo 5 minuti e rompendo le palle e basta…insomma ci sono queste e molte altre tipologie, e poi ci sono i Fugazi.

Sotto questa voce che comprende in una parola sola un mondo, una valanga non solo musicale di qualità e peculiarità che fanno la differenza sulla capacità e forza di fare breccia nel cuore di appassionati ed amanti di musica ci sono appunto solo loro, vera mosca bianca di un underground che ha saputo conquistare tantissima gente in tutto il mondo a botte (si fa per dire, vietatissimo pogare ai loro concerti) di dosi massicce di musica di qualità, un numero incredibile di live infuocati in quindici anni di attività, tassativamente con biglietto di ingresso a prezzo bloccato e abbordabile. Un esempio di coerenza, credibilità, intransigenza, indipendenza senza mezze misure, quella che non scende mai a compromessi, capacità di scrittura indiscutibili, integrità, moralità, onestà, devozione, carisma, originalità, voglia di sperimentare e chi più ne ha ne metta ma poi soprattutto basta lunghi elenchi, ho rotto il cazzo me ne rendo conto.

Tutto ciò comunque ha fatto sì che i Fugazi diventassero una band di culto fondamentale non solo nel mondo dell’hardcore ma in tutto ciò che rappresentava o si avvicinasse ad un fervente sottobosco musicale rock a livello mondiale che nasceva da circa la metà degli anni 80. Non c’era più quindi solo il mondo del mainstream fatto di lustrini, mossette, chitarre patinate, assoli interminabili strappa mutande, ritornelli facili, classifiche, eccessi ed atteggiamenti inutili o ridicoli da rockstar, ma piuttosto quello fatto di alti voltaggi, ispirazione, tanto sudore, sacrifici e fatica, dove la fama di un gruppo si basava esclusivamente sul passaparola tra la gente, non esistendo internet e la rete.

Così, i Fugazi sono diventati i portabandiera fieri e più identificativi della filosofia DIY: mai nessuno prima di loro, così come difficilmente ci sarà qualcun altro allo stesso livello dopo di loro; mai dire mai, per carità, ma sfido qualunque musicista ad essere così duro e puro, rifiutando svariate volte contratti discografici vantaggiosi economicamente con major nel nome del DIY, della proprietà intellettuale, della piena autonomia ed indipendenza nel decidere come autogestirsi e sulle strade musicali da percorrere. In una parola sola forse si potrebbe dire ATTITUDINE PAZZESCA o totale pazzia, a voi la sentenza! Potrei stare ore a parlare ancora ed anche dell’importanza della Dischord, una delle etichette indipendenti più importanti della storia della musica, fondata proprio da Ian MacKaye e Jeff Nelson (il batterista dei Minor Threat) e sotto la quale i Fugazi pubblicarono tutti i loro lavori, o della filosofia che abbracciarono e contribuirono a diffondere lo stesso MacKaye e soci cioè lo Straight Edge e quanto fu significativo per generazioni future di hardcore kids, ma quelle sono altre storie e se lo facessi mi dilungherei troppo oltre, più di quanto stia già facendo, mentre dovrei parlare di “Red Medicine“.

Dal punto di vista prettamente musicale il gruppo partiva dalle radici hc -quello tirato ed old school dei Minor Threat per quanto riguarda Ian MacKaye – e da ciò che da lì in poi fu chiamato emocore dei Rites of Spring, band dalla quale proveniva l’altra personalità forte del gruppo, ovvero Guy Picciotto. I Fugazi plasmarono queste due influenze portandole verso lidi differenti, anche in questo caso come forse nessuno aveva fatto prima di loro, eccezion fatta per i Minutemen che però lo fecero in modo diverso.

I Fugazi furono tra coloro che permisero la nascita di quello che fu definito post-hc, trasformando il “tupa tupa” più o meno melodico delle band sopra citate, rallentandolo ed aggiungendo colori, varietà, dissonanze noise, ritmiche e groove addirittura avvicinabili al dub o al reggae – basti sentire il lavoro dell’originale sezione ritmica composta da Joe Lally/Brendan Canty, il tutto filtrandolo con l’emocore e condito dagli incastri e botta e risposta delle due taglienti chitarre, che per fama, estro e sostanza in quel mondo sono seconde forse solo a quelle del duo Moore/Ranaldo. A ciò bisogna aggiungere due voci inconfondibili, il vocione grezzo e riconoscibile di Ian MacKaye e quella graffiante e straziante di Guy Picciotto che si alternavano dietro al microfono un po’ come successe in un altro binomio fondamentale della storia del rock quasi trent’anni prima, e parlo ovviamente di John Lennon e Paul McCartney.

Dal punto di vista sonoro cosa cambia nel 1995 nei Fugazi? Subentra in maniera più forte e chiara una gran voglia di sperimentare, oserei dire una necessità impellente che li spingeva ad andare veramente oltre alla forma punk-hc ed emocore delle origini a favore di un certo art rock o alternative rock di pregevole fattura. Si potrebbe dire che in “Red Medicine” i quattro di Washington DC decisero di osare veramente, cosa che contraddistinguerà poi anche tutte le altre uscite future fino al commiato nel 2001 con “The Argument“.

Dopo un disco più aggressivo e diretto come “In On The Kill Taker“, in “Red Medicine” la rabbia venne parzialmente stemperata a favore di forme sonore più ragionate, articolate, complesse e meno hardcore. Il risultato fu comunque notevole, ma di più difficile assimilazione, soprattutto dalla frangia punk più purista dei loro supporters. Fu un lavoro coraggioso, comunque composto da canzoni che segnarono la loro storia come Do You Like Me, Bed For The Scraping – con il suo giro di basso che mi gasa sempre – , LatestDisgrace o Birthday Pony, ma soprattutto ricco di nuovi spunti che tanto per cambiare fecero scuola all’epoca.

Non so se sia il disco migliore dei Fugazi ed è difficile dirlo, ma “Red Medicine” lasciò indiscutibilmente un segno ed il sottoscritto di sicuro lo ama anche grazie al primo impatto che ebbe con la copertina realizzata da Jem Cohen, loro amico. L’immagine ritraeva nella parte superiore la testata di Ian MacKaye con la scritta in rosso Fugazi ed una loro foto rovesciata nella parte in basso. “Red Medicine” comunque fu probabilmente l’album più audace e non può che essere così, basti ascoltare la parte centrale con la cantilena di Forensic Scene od il bizzarro esperimento riuscito di mischiare il funk al noise come nella strumentale Combination Lock, lo spoken word poetico di Fell Destroyed con tanto di ritornello melodico ed ipnotico, il noise di chiara ispirazione Sonic Youth di By You, cantata da Joe Lally che mette la voce forse per la prima volta su una loro canzone, per non parlare del free jazz delirante di Version, con il suono di quel clarinetto impazzito che ogni volta che sento entrare mi sconquassa.

Red Medicine” fu un maturo e pregevole lavoro di rottura e cambiamento nella carriera dei Fugazi che non ha fatto altro che acrrescere il mito e la fama di una delle band più significative degli anni 90. Inutile dire che, a ventisei anni dall’uscita di questo disco, i Fugazi ci mancano tremendamente, soprattutto di questi tempi.

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