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Guilty Pleasures #2: 883, Eiffel 65

Secondo la teoria della dissonanza cognitiva di Festinger, quando gli individui si trovano di fronte a cognizioni che sono psicologicamente incoerenti tra loro, provano uno stato motivazionale spiacevole, detto dissonanza cognitiva. Maggiore è lo stato di dissonanza e maggiore sarà la tendenza dell’individuo a ridurla: cambiando il proprio comportamento, cambiando l’ambiente oppure cambiando il proprio mondo cognitivo, ossia convivendoci. Guilty pleasure, ossia piacere proibito. Con questo anglicismo si indica la fruizione di un contenuto (musica, film, libro, etc) che amiamo ma che al tempo stesso ci dà vergogna.

Un concetto che da queste parti abbiamo rispolverato a più riprese e nelle più svariate forme è quello dell’ascoltare un disco pop senza vergognarsene affatto, o meglio, dell’ascoltare un disco pop in quanto tale senza vergognarsene affatto. Pare non esserci tutta ‘sta gran differenza tra le due locuzioni e invece c’è, ed è pure bella grossa.

Negli ultimi anni, per intenderci quelli dello tsunami retromaniaco che abbracciamo tutti senza distinzioni, abbiamo assistito ad un’enorme quantità di scoprialtarinismo alternativo da far spaventare il più inveterato dei musicofili. Cosa intendiamo con il summenzionato neologismo forzato? Semplicemente il modo mostrato da certa intellighenzia webzinara – anche se ci sarebbe da tirare in ballo ognuno di noi senza distinzioni – nello svelare a tutti i propri cosiddetti dischi GUILTY PLEASURE che fino a una decina d’anni prima erano nascosti dietro a decine di album ultra-occult punk rock, neopagan-rap, techno-coreblaster, grind-dance-jazz e psych-metal-post-pifferazzi. Tutti dischi per lo più sconosciuti o lì lì per esplodere ed essere inglobati nel mainstream tritatutto, ma che intanto all’epoca (qualsiasi essa fosse), non s’inculava nessuno tranne te, due amici come te e il tuo rivenditore di dischi di fiducia, che era come te. Però, dietro quelle pietre miliari dell’oscuro sottosuolo mondiale, ecco fare capolino quello che tu e i tuoi amici punkammetalalternativejazzdiy non avreste mai ammesso d’ascoltare in pubblico, con tanto di abiura ufficiale se sgamati in pieno a canticchiare quella canzonetta là sentita su MTV o su una qualsiasi radio generalista.

Il concetto di “piacere proibito” è andato via via squagliandosi quando la suddetta compagine internet non è più riuscita a trattenersi, pubblicando sui propri profili proprio quei brani pubblicamente ripudiati tanti anni prima e facendo uscire gli occhi dalle orbite a quei due amici là, che per giunta ti hanno beccato a fischiettare Oops!…I Did It Again. Come fare, a questo punto? Gettare la maschera e mandare a fare in culo quei gran rompipalle dei tuoi sodali integralisti ammettendo finalmente che, sì, a te Britney Spears fa volare nonostante le manchi tutto il sostrato cultural-sperimentale dei Can, e insomma sia una roba per teenager ma che balli anche durante i primi tre secondi di un suo pezzo oppure celare il proprio amore per il pop più “spregevole” sotto tonnellate di paroloni altisonanti, cercando una profondità tipo Fossa delle Marianne ma culturale in album che sono per definizione più forma che sostanza, applicandovi etichette bestiali che, mammasantissima, non sarebbero credibili nemmeno se a tesserne le lodi fosse il redivivo Lester Bangs oppure Julian Cope in persona?

Noi non abbiamo mai avuto dubbi su quale dei due fronti appoggiare e con alterigia lo diciamo a chiare lettere proponendovi mensilmente quelli che sono i nostri Guilty Pleasure, vergando di volta in volta le pagine del “Malleus Maleficarum del pop in quanto tale”, senza tanti giri di parole né il bisogno di schermirci dietro a vuote filosofie dove la filosofia non attecchirebbe neppure provandoci per eoni.

Due dischi per volta, senza vergogna alcuna, invitandovi a farlo voi stessi. CONFESSATE I VOSTRI PECCATI, ERETICI DEL VERBO ALTERNATIVO!

883 – Hanno ucciso l’Uomo Ragno

(di Fabio-Marco Ferragatta)

Quant’è retorico dire che chi è nato negli anni ’80 non ha potuto evitare lo scontro frontale con gli 883? Fin troppo, ma che cazzo volete farci, è così e dovete farvene una ragione. Poi, crescendo, possiamo negare di sapere tutte le loro canzoni a memoria e di prenderci strabene quando ne sentiamo una da qualche parte e che, in auto, anziché piazzare, che so, Queens Of The Stone Age, Clipping. o Tool, prediligiamo “Hanno ucciso l’Uomo Ragno”. Potremmo anche sfoderare tutta la questione, altrettanto retorica, che Max Pezzali e Mauro Repetto hanno sdoganato tutta l’ignoranza che in sede lirica ha ammorbato il mondo della musica italiana da I Cani in giù fino a certo itpop, ma è robaccia sterile. L’itpop et similia scompariranno, gli 883 no. Mai. Sono intergenerazionali, anche se parlavano di un mondo che non c’è più. Godei come una belva quando Blow Up ne fece uno speciale linguistico, prendendo in esame il modo in cui Pezzali spostava gli accenti o suddivideva le parole (urlo ancora su “cammìni, cammìni, cammìni, mini, mini”). Il debutto del duo è un coacervo di frasi micidiali e di maranzitudine che rovesciava l’idea dello “sfigato”, perché dava dello sfigato ai fighetti, in una vampata di rivincita dei nerd prima che i nerd facessero clamore. Il disco lo rapinai dalle cassette portate a casa dalla radio da mio padre, e me ne abbuffai, anche perché per tutti gli anni ’90 i loro brani furono hit, nei jukebox (c’erano ancora, ovunque andassi) trovavi di tutto. Becerate heavy metal piazzate qua e là come nulla fosse, le lamentele per le lamentele dei genitori, delle tipe che li scagavano, i bar col branco di “coglioni” che facevano casino, la provincia merdosa che ti masticava e sputava sul marciapiedi e Cecchetto a leccarsi i baffi perché ci aveva preso in pieno. Fateci caso, non è una storia veramente simile a quella di “Licensed To Ill” dei Beastie Boys e Rick Rubin? Non scandalizzatevi, è così, e pure i contenuti non andavano tanto distanti. No? Ripassate il ritornello di Girls e poi quello di Lasciati toccare e poi ditemi se non sono la stessa storia di adolescenti ormonati, annoiati e imbarazzanti.

Eiffel 65 – Europop

(di Fabio Gallato)

Credo di essere stato una sola volta in vita mia in una discoteca, intesa nella tipica accezione dei primi 2000 del termine. Avevo circa 15 anni ed era ovviamente una domenica pomeriggio. La location era di una tristezza infinita e irresistibile, una sorta di ex fabbrica nel mezzo della periferia della mia città, riarredata alla bell’e meglio con il gusto tipico di chi non ha il minimo criterio estetico. Erano gli anni delle Buffalo ai piedi e delle improbabili pettinature marmorizzate in testa, e infatti la maggior parte degli avventori era una pletora di disagiati e rimbecilliti da cui non me la sento di dissociarmi del tutto. Ai tempi era ancora possibile fumare all’interno dei locali chiusi, anzi dalla coltre di fumo e imbarazzo che aleggiava sopra le teste dei presenti direi fosse quasi obbligatorio. Al mio ritorno a casa il puzzo era talmente persistente sopra i miei vestiti che ci misi diversi mesi a far capire a mia madre che non ero un teppista con il vizio del tabagismo, anche perché per un po’ mi ha fatto sinceramente piacere lo pensasse. Sorvolo sull’andamento del pomeriggio, trascorso tra la voglia di commettere seduta stante una serie infinita di reati contro l’umanità e passare il resto della vita in una cella a L’Aia e la tentazione di farla finita lì davanti a tutti, con un qualche gesto teatrale dalla potenza espressiva irreplicabile. Il motivo? Tra le decine di canzoni orripilanti trasmesse in quell’interminabile pomeriggio da quello che credo fosse il Dj, più probabilmente un inserviente in giornata libera, per lo più roba sconosciuta da rave party di serie C, mi aspettavo almeno qualche momento di quella musica cosiddetta COMMERCIALE, ovvero quella dance che anche chi come me già cercava di darsi un tono con la musica ROCK conosceva benissimo (o faceva finta di non conoscere). E invece niente, solo una sfilza interminabile di TUNZ TUNZ nauseabondi che, insieme a un paio di Vodka Lemon di qualità infima, mi lasciarono con una sensazione di dopo-sbronza triste che di fatto non avevo mai sperimentato. Giunto a casa, per riprendermi piazzai nel lettore CD quello che ancora oggi non fatico ad identificare come il mio disco dance preferito di sempre (al pari di un altro di cui vi parlerò in seguito). Raramente ho provato con un disco una simile sensazione di riappacificazione con il mondo, e forse è anche grazie a questo evento che penso che “Europop” degli Eiffel 65 sia una pietra miliare della musica per ballare anche per chi di ballare non ne ha la minima intenzione.

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