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Tu Meriti Il Posto Che Occupi. La storia dei Disciplinatha.


Scheda

Autore: Giovanni Rossi
Uscita: 27/05/2021
Editore: Tsunami Edizioni
Pagine: 396
Prezzo: € 22

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Nell’arco dei primi dieci anni del Nuovo Millennio mi sono ritrovato spesso in situazioni anomale legate agli ambienti che avrebbero dovuto essere miei, in cui mi sarei dovuto sentire a casa, per trovarmi invece in difetto, solo o, nella peggiore delle ipotesi possibili, accerchiato e messo davanti alle cecità delle persone coinvolte. Nella fattispecie ciò accadeva nei centri sociali, quello della mia città in primis. Gente cacciata perché ha indossato la maglietta sbagliata, spedizioni punitive, anzi, no, “educative”, nei confronti di chi non la pensava allo stesso modo, pregiudizi immensi verso chi ascoltava qualcosa che non fosse reggae, rap o ska punk e in generale un’apertura mentale degna di un monaco di clausura del 1200. Dopo svariati litigi di natura politica mi fu dato del fascista per il semplice motivo che li stavo criticando per il loro essere più clericali del clero stesso. Incassata l’assurdità della cosa pensai di dar loro modo di non capire quale fosse la verità con un vestiario inappropriato, in grado di confondere le loro idee già confuse: bretelle, tagli di capelli in linea con la cosa, anfibi, lacci rossi, vari risvolti. Non capirono la provocazione e continuarono a pensare fossi un fascista e il fatto che ascoltassi – tra le mille altre cose – black metal non fece che corroborare la loro idea tossica.

In quegli stessi anni venni a conoscenza di una band chiamata Disciplinatha. Parlandone proprio in quegli ambienti di cui sopra mi resi conto che erano tabù. A distanza di tanti anni quel nome faceva paura, non andava proferito ad alta voce, causa scomunica eterna. Niente di meglio, sembrava fosse proprio ciò che stavo cercando, e ancora non sapevo quanto fossero vicini a quello che mi stava succedendo, seppur in piccolo e in anni ben meno pericolosi di quelli in cui la band emiliana ha iniziato il suo percorso. Informazioni sparse (era davvero difficile trovare materiale per una band che tutti i sedicenti “alternativi” cercavano di evitare come la peste) e l’ascolto di “Abbiamo pazientato 40 anni: ora basta!” mi diedero una certa idea. Al resto ci ha pensato Giovanni Rossi, come sempre lucido nell’immergersi in realtà poco battute.

Il libro, uscito nel 2018 ma tornato disponibile anche in libreria solo ora, doveva essere scritto da Alessandro Cavazza, già regista e curatore del documentario “Questa non è un’esercitazione”, che ha declinato perché deluso da quello che i Disciplinatha sono diventati dopo il primo periodo, quello che più li ha caratterizzati e stigmatizzati, e così ha passato il testimone a Rossi, che ha raccolto per questo lavoro voci vicine alla band, da Renato “Mercy” Carpaneto, Valerio Zecchini, Helena Velena (suo un intero capitolo in cui si trova nella fastidiosa posizione di voler, non dover, spiegare ciò che è stato l’esordio discografico della band), Massimo Zamboni fino a Vittoria Burattini dei Massimo Volume, oltre che ai protagonisti in prima persona, com’è giusto che sia e ad interpolazioni e stralci di quanto detto nel docu-film. Quello che stringete tra le mani (e se non l’avete, rimediate e pure in fretta), non è solo la tipica biografia di un gruppo, è un libro di storia sociale e politica di un Paese perennemente allo sbando, unico nel suo essere immerso nella nebbia e nell’oscurità delle persone nei panni di politici deviati e di masse impiccate alla propria idea di “alternatività”, che oggi vediamo completamente disciolta nella flatland del nulla. Il gruppo lo aveva preconizzato e già allora si era messo di traverso e di traverso era andato un po’ a tutti, messi davanti alla propria Storia irrisolta e alla debolezza di quello che stavano cavalcando.

Il bello della narrazione sta proprio in quello che non temo di chiamare interplay tra Disciplinatha e accadimenti della Prima e della Seconda Repubblica, che sono sia terreno fertile che benzina per l’attivazione di questa macchina spaventosa, nel vero senso della parola. “Tu meriti il posto che occupi”, poi, non è accomodante, anzi, l’esatto opposto: è scomodo da morire, come giusto che sia. Le parole di Cristiano Santini, Dario Parisini e Marco Maiani, su tutti gli altri membri del gruppo, sono quelle più feroci, in totale continuità con la propria creatura e mai indulgenti con la stessa. Pensieri forti, che portano a ragionare, anche quando non si è d’accordo (e sono molti i punti in cui non concordo coi tre), che obbligano ad un ragionamento per capire da dove nascano certe prese di posizione dure e spigolose. Un racconto irto di asperità, estenuante nelle prime battute, quelle di “Abbiamo pazientato…” e che stinge nella consapevolezza della fine via via che si arriva a “Primigenia”, e qui sta tutta la bravura di Rossi nell’organizzare i ricordi e renderli organici, dall’urgenza della gioventù all’amarezza dei trent’anni, per dieci anni di delirio politico e musicale come pochi altri se ne sono visti in Italia.

Un libro che pesa, che spaventa e che non può né deve lasciare indifferenti e che non si deve avere paura di sfoggiare, e chi se ne fotte se siete di sinistra o destra, quella foto di quarta di copertina fa rizzare i peli sulla nuca, situazione perfetta in cui trovarsi leggendo e ascoltando, anche dopo 34 anni dalla fondazione di un gruppo che ha lasciato un vuoto incolmabile nel nostro panorama musicale. Ci meritiamo davvero il posto che occupiamo, in fin dei conti.

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