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Back In Time

“White Blood Cells” dei White Stripes, gli ultimi prigionieri del rock’n’roll

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Fu con questo “White Blood Cells” che Jack White portò trionfalmente le sue ossessioni retromaniache nei salotti buoni del rock’n’roll: così, da un giorno all’altro, lui e la moglie (?) Meg, col loro bianco/rosso/nero stilizzato diventarono i poster alle pareti per una nuova generazione di music lovers, la stessa che stava ancora muovendo il culo sulle note di Last Nite e Hard to Explain degli Strokes. In verità, di fronte ad una voce da Robert Plant in calore e ad una chitarra che ululava punk-blues come come non si sentiva dai tempi dei Gun Club, anche i meno giovani fra i gli appassionati abbassarono le difese per lasciarsi travolgere da un suono che portava il passato nel presente senza nostalgia.

E mentre gli Strokes facevano sfilare i Velvet Underground sulle passarelle della moda, i White Stripes stavano preparando l’ingresso del loro rock’n’roll nelle curve degli stadi: “White Blood Cells” si fermava ai tornelli d’ingresso, ma il tempo era dalla loro parte e quando arrivò Seven Nation Army,  i due di Detroit staccarono il pass per l’eternità, con quell’ormai famigerato ‘poo-po-po-po-po-po’ che risuona ancora adesso nelle sere degli Europei di calcio. Nel Regno Unito il glorioso dj John Peel da un po’ assediava le orecchie degli ascoltatori inglesi col piombo fuso delle loro canzoni, negli States l’esibizione al David Letterman Show aveva aumentato la reputazione della coppia, e “White Blood Cells” confermò le stimmate della genialità. Chitarristica, soprattutto, con l’armamentario vintage di Jack White capace di guizzare dai pantani del Delta al muro di fuoco della Motor Town, dall’indie dei tempi del Magic Stick alle filastrocche acide e imbambolate in odore di folk.

Viscerale senza essere trasandato, spaccone senza essere volgare, Jack White suonava come morso da un serpente a sonagli e succhiava l’anima al blues per riempirci un set di canzoni ebbre di adrenalina anche quando si vestivano di morbide melodie come in We’re Going To Be Friends, un pezzo che evocava  l’innocenza di un’amicizia nata tra i banchi di scuola e che qualche tempo dopo venne ripresa nella colonna sonora del pluripremiato “Napoleon Dynamite” di Jared Hess. Ad inseguire le fughe fra i generi di Jack provvedeva il sorriso maliziosamente innocente di Megan Martha White, una ex barista con la fissa per Dylan e le caramelle alla menta che col suo drumming secco e quadrato portava nel suono un che di selvatico e primitivo. Per la prima volta i White Stripes avevano portato il naso fuori dal salotto dove avevano mandato a fuoco le suppellettili per registrare i primi due dischi, e “White Blood Cells” fu prodotto in maniera appena più professionale e rotonda negli studi della Easley McCain Recording di Memphis (negli anni ci capitarono, fra gli altri, Sonic Youth e Pavement, Alex Chilton e Jeff Buckley). Giusto per non sperperare le buone vibrazioni che c’erano nell’aria, i White Stripes ci misero quattro giorni tra registrazioni, missaggio e mastering, il minimo sindacale per aggiungere qualche sfumatura senza sacrificare l’atteggiamento da ‘buona la prima’.

White Blood Cells” era follia e saggezza insieme e Jack White sembrava l’ultimo dei prigionieri del rock’n’roll: I Think I Smell A Rat sfrecciava polemica e sputava veleno, The Union Forever era strisciante e minacciosa e I Can Learn era oscura come un presagio. Sedici canzoni, nessuna uguale all’altra, e tutte concorrevano a liberare le emozioni di uno stile fatto di salite e discese, di calcolo e istinto, di paludi e grattacieli. C’era un country fracassone e gradasso di quelli che piacevano agli Stones (Hotel Yorba) e soprattutto un garage-pop gioioso e vagamente sexy di quelli che se non ti chiami Ray Davies potrai scrivere sì e no tre volte in una vita: era l’irresistibile Fell In Love With A Girl, peraltro accompagnata da una clip diretta da Michel Gondry, che nel 2002 si portò a casa tre MTV Video Music Awards.

Protetto da una conoscenza enciclopedica della materia, Jack White infilava le proprie visioni nella storia del rock’n’roll per uscirne con disco che aveva persino una fisionomia di modernità .”White Blood Cells” arrivava dritto in faccia, concedeva la parola al passato e dava garanzie sul futuro. Hey hey, my my…

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