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Back In Time

“Fun House”: la casa dei divertimenti degli Stooges, una bomba atomica di angoscia e perdizione

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Chiamo dalla casa dei divertimenti con la mia canzone / Siamo stati separati troppo a lungo, piccola / Chiamo voi, bellezze esuberanti / ……Sì, sono venuto a giocare e intendo giocare per bene / ……Sì, il ragazzo della casa del divertimento vi ruberà il cuore

(da Fun House).

Benvenuti alla casa dei divertimenti di Iggy e gli Stooges. Benvenuti al “più grande disco di Rock’n Roll di tutti i tempi: non c’è partita” (Melody Maker). “Gli Stones non sono mai andati così a fondo, i Beatles non sono mai suonati cosi’ vivi e nessuno riuscirà mai a eguagliare la ferocia di Iggy Pop come cantante.” (Rolling Stone). Che altro possiamo aggiungere a siffatti giudizi definitivi? Come potremmo contraddire Nick Cave, Joey Ramone, Steve Albini, Jack White, Mark E. Smith, per i quali “Fun House” è il loro disco preferito?

Fun House” era uno dei nomignoli della fattoria che gli Stooges avevano affittato nei dintorni di Ann Arbor, Michigan e in cui si erano trasferiti tutti insieme. L’altro era “Stooges’ Manor”. Lì, tra abusi di sostanze e generica perdizione, la band visse gli anni dei primi due dischi. Il primo album della band del Michigan, “The Stooges“, non era stato un grande successo commerciale. Nel maggio 1970, gli Stooges si ritrovarono allora in uno studio di Los Angeles, grazie alla perseveranza della loro etichetta, la Elektra e del suo patron, Jac Holzman. Un signore a cui devono la carriera altri gruppi seminali di 50 anni fa, come i Doors e gli MC5. Holzman, determinato a dare agli Stooges una seconda opportunità, chiamò un nuovo produttore, Don Gallucci. Il problema, Gallucci comprese subito, consisteva nel rendere in studio l’energia animale che la band esprimeva dal vivo. Dopo le prime frustranti prove in studio, si decise di fare il possibile per ricreare la situazione di un live. Tutti gli Stooges nella stessa stanza; via tutte le imbottiture e i pannelli isolanti dallo studio; Iggy con il microfono in mano libero di muoversi; amplificatori di basso e chitarre l’uno accanto all’altro. Voilà: i giochi erano fatti.

Andatevelo a vedere qui l’Iguana a petto nudo nel 1970 che si dimena sul palco sostenuto dalla band, fino a lanciarsi fisicamente sul pubblico cospargendosi di burro di arachidi. La band suona un po’ funky e jazz, a tratti, ma sempre dura, grezza, elettrica davvero: come se gli Stooges, sul palco, fossero attraversati all’unisono dalle stesse scariche elettriche che sembrano guidare la loro musica e la loro performance. E Iggy, con le sue mosse, sembra mimare l’effetto di quelle scariche. Jagger non è mai arrivato a tanto, Jagger, con tutto il sacro rispetto dovutogli, non si è mai spinto dove si è spinto Iggy. Jagger alla fine recitava una parte; Iggy dava tutto se stesso, arrivando a rischiare l’autodistruzione da cui l’avrebbe salvato qualche anno dopo David Bowie. Il miracolo di “Fun House” consistette proprio nell’aver saputo riprodurre su disco questo feeling e, alzando il volume, la band potrebbe essere nella tua stanza, dandoti tutto.

Ma malgrado il titolo, non è che il disco fosse proprio una pacchia. Piuttosto, trasuda cattiveria, angoscia, lussuria e perdizione. L’urgenza di un “qui e ora” nietzschiano e disperatamente dionisiaco. Lo dimostra il modo in cui ritorna, nel corso del disco, l’urlo “I Feel Alright”, fino a diventare il titolo del lato b del 45 giri, ora reperibile nella versione deluxe del disco. È un urlo, un’attestazione di benessere, per nulla genuina, ma piuttosto disperata. Della serie: urla forte per convincerti e scacciare il dolore, mentre sei fatto come una pigna.

A questo urlo, si associa il richiamo sessuale di Iggy che, come tutti, come sempre, la lezione l’aveva appresa dai grandi bluesmen: “in ‘Fun House’ m’ispiro a Howlin Wolf, quella roba per me è la sua roba, almeno come posso farla io”, raccontò l’Iguana. E lo senti subito in Down on the Street, l’ormai famoso opener del disco. Un grandioso giro blues, tiratissimo e lanciato dalle urla del cantante che ti manda una scarica di adrenalina giù per il corpo. Chitarra punk per Ron Asheton, prima che esistesse il punk, con un riff magistrale in levare: pochi pedali e effetti, molto feedback. “Suonava la chitarra come un teppista”, è la migliore descrizione del suo stile chitarristico, mentre quello da palco prevedeva urticanti uniformi naziste. Dave Alexander al basso sembra un nero messo lì dalla Motown, mentre la batteria di Scott Asheton vibra all’unisono col basso, grazie alla mancanza di isolamento acustico in sala.

Il punk, inteso come semplificazione e estremizzazione del rock’n roll, si sente ancor più chiaro in Loose, la canzone più breve del disco, che deve aver detto molto ai Ramones. T.V. Eye ha un altro inizio epico con un riff da Arena rock e un urlo rauco più che mai. La canzone gira sempre su quei tre accordi e qui sono i Sex Pistols ad avere preso buona nota. Con Dirt (forse l’apice artistico del disco) siamo nel territorio dei contemporanei Doors, con Ron Asheton che si fa psichedelico, nell’accompagnare i mugolii di Iggy, in un lento blues lascivo. Ma i Doors non arrivano a questa intensità. Jim Morrison sarà un poeta di ben altra grana e cultura, ma non brucia nel momento quanto Iggy: “Sono stato sporco / E non m’importa / Perché sto / Bruciando / Dentro…./ Hai detto che lo senti quando mi tocchi? / C’è un fuoco”. Testi e musica fanno pensare agli Afghan Whigs con 20 anni di anticipo.

Con 1970 si torna in piedi a ballare, al ritmo tribale imposto dai tamburi e dai piatti di Scott. Ed ecco che al minuto 3:30 entra il nuovo membro del gruppo, la sorpresa di “Fun House”: Steve Mackay al sax. Qui impegnato in un solo incredibilmente jazz, tra le urla punk del cantante: un contrasto che fa venire i brividi. La sua fu una parabola di soli 5 mesi nella band. Sufficienti per lasciare una impronta distintiva in questi ultimi pezzi del disco. Fun House riparte subito da dove ci aveva lasciato 1970, con il sax in evidenza: “Soffiaci dentro, ora! / Soffia Stevie”, urla Iggy in apertura. Mackay comincia con un solo R&B per poi agganciare il riff del basso di Alexander, accentuando gli stacchi sul rullante di Scott e terminando per duellare con la chitarra di Ron.

E infine, il disco sfocia nell’apoteosi finale di L.A. Blues: lo classifichiamo come pezzo strumentale, malgrado le urla lancinanti di Iggy? Lo classifichiamo come blues, come free-jazz, come avant-garde, come noise, o come hard rock? Non lo sapremo mai. Sapremo solo che i cinque non intendevano risparmiarsi. Ma ciò malgrado, commercialmente “Fun House” fece ancora peggio che The Stooges, non entrando nemmeno in classifica. I cinque ragazzi, strafatti di eroina e alcool, avevano effettivamente dato tutto e scialacquato l’anticipo della casa discografica in stravizi. Così che, esausti, nell’estate del 1971 sciolsero la band, per il momento, dopo aver dovuto rinunciare ai diritti d’autore sui propri dischi per sistemare i debiti, nonché al loro castello, la loro personale casa dei divertimenti alle porte di Ann Arbor.

Adesso rimpiango tutte le volte che ho usato parole come ‘potenza’ e ‘energia’ per descrivere il rock’n’roll, perché avrei dovuto tenere da parte tale retorica per questo disco. Dovrei compararlo ad una bomba atomica? Una palla da demolizione? Una centrale idroelettrica? Non c’è linguaggio adatto al compito.

(Robert Christgau – Christgau’s Record Guide: Rock Albums of the Seeventies)

Amen. 51 anni dopo, l’Iguana è sopravvissuto alla spirale di autodistruzione in cui fu creato il disco, vive e lotta con noi, lanciandosi ancora sul palco tra le braccia dei fan. L’ho visto con i miei occhi qualche anno fa in concerto con Josh Homme: sempre a petto nudo, all’alba dei 70 anni. Gli altri quattro Stooges del disco, invece, ci hanno lasciato. Alexander già nel 1975, a soli 27 anni, per le conseguenze dell’alcolismo. I fratelli Asheton sono stati freddati da due infarti, nel 2009 e nel 2014. Mackay lo abbiamo perso nel 2015.

“Fun House”, uno di quei dischi ignorati da pubblico e critica contemporanei ma a cui il tempo ha reso giustizia, invece non ci lascerà mai, rientrando tra i dischi immortali di questo divertimento senza fine che è la musica che amiamo. Se noi che siamo venuti dopo i cinque ragazzi del Michigan possiamo goderne senza necessariamente farci del male, è anche grazie alle libertà che band come gli Stooges hanno aperto per noi, lottando da un palco contro la repressione creativa e sessuale.

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