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“Every Good Boy Deserves Fudge”, il punto di rottura dei Mudhoney

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Ci sono mondi che si aprono nell’immaginario collettivo se solo si pronunciano poche parole, ma significative. Ad esempio Seattle, metà anni ’80: è subito grunge. La leggenda narra che il termine fu usato per la prima volta nel 1981, quando un giovane chitarrista e cantante di stanza a Seattle scrisse a una rivista per definire in quel modo la sua band, spostando il benchmark del laidume da punk (poveraccio) a grungy (sudicio). Il giovane aveva buon fiuto per gli affari, tanto che riuscì a infilare nel palinsesto di una radio locale un pezzo dei suoi Mr. Epp and the Calculation. Lo speaker però stroncò il pezzo, definendoli la peggior band del mondo.

Quel ragazzo si chiama Mark Arm e pochi anni dopo quella lettera, esattamente nel 1984, fonda i Green River. E’ un’esperienza tanto breve quanto significativa per il successivo decennio del cosiddetto Seattle sound. Oltre a Mark, nei Green River militano infatti i chitarristi Steve Turner e Stone Gossard, il bassista Jeff Ament e il batterista Alex Vincent. Solo quest’ultimo resterà per sempre uno spirito libero, mai imbrigliato in logiche di gruppi e case discografiche. Diversamente, dallo scioglimento della band, Ament e Gossard daranno vita ai Pearl Jam mentre Arm e Turner, insieme a Matt Lukin e Dan Peters, fonderanno i Mudhoney.

L’inizio è folgorante: produzione dei Green River a parte, il terreno su cui poggia il primo mattone del grunge è Touch Me I’m Sick, un singolo che ben presto diventa punto di riferimento per chiunque viva a Seattle e voglia proporre un certo tipo di musica. Sui quattro hanno già messo gli occhi il produttore Conrad Uno e Jack Endino dei Reciprocal Studios: da lì al contratto con la Sub Pop – che aveva iniziato la sua attività con “Dry As A Bone” dei Green River – il passo è breve. L’ultima parte dello sprint iniziale i Mudhoney la vivono con il disco omonimo, datato 1989: le chitarre sono fangose, la batteria martella dalla prima all’ultima nota, il basso denota un’ossessività tipica delle sonorità punk del decennio precedente. La voce di Arm è il sigillo finale, con il suo tono così dimesso, svagato, calante, la negazione di un singer melodico.

Da un anno all’altro lo scenario si arricchisce di nuovi elementi. Partendo dalla produzione, il confermatissimo Conrad Uno punta tutto su un vecchio desk analogico a otto piste. Sul piano musicale, i Mudhoney fanno leva sulle loro passioni – garage anni ’60, blues, punk e metal – allo scopo di mettere in scena se stessi in modo più completo e maturo. Il sound finale viene quindi maggiormente stratificato, attraverso l’utilizzo di organi, armoniche e di un suono di chitarra “fuzz” che progressivamente lascia spazio all’acustica.

A fine luglio del 1991 viene così dato alle stampe “Every Good Boy Deserves Fudge”, espressione che non significa niente ma viene utilizzata dagli studenti di musica per ricordare la sequenza di accordi del giro di sol (con la scala in lingua inglese si ha infatti E-G-B-D-F, che corrispondono ai nostri MI-SOL-SI-RE-FA), uno scioglilingua usato in diverse versioni già dai Moody Blues nel 1971 e da Tom Stoppard nel 1977.

(c) Michael Levine

Fatta eccezione per l’incredibile – e meravigliosa – introduzione di Generation Genocide, in tipico stile progressive, “Every Good Boy Deserves Fudge” è disco dalla sostanza punk. Si capisce subito, in Let It Slide, il resto lo raccontano Thorn, Into The Drink, Who You Drivin’ Now, Shoot The Moon e Fuzzgun ’91. Basterebbe questo per renderlo un disco di livello assoluto: è un viaggio nel tempo, il post punk corre veloce verso gli anni ’90.

La grandezza di “Every Good Boy Deserves Fudge” sta però nel voler osare, i Mudhoney si spingono oltre i propri orizzonti attraverso il rimescolamento del loro mazzo di carte. E allora ecco Good Enough, che scioglie nei liquami una dolce melodia, oppure quel piccolo capolavoro psichedelico – e parecchio incazzato – che è Something So Clear. A disorientare ulteriormente chi ascolta, soprattutto i duri e puri, c’è Broken Hands, una ballad infinita, struggente, romantica: una meraviglia. E quando le idee sembrano finite, ecco spuntare Move Out e Pokin’ Around, laddove l’armonica dona un deciso tocco folk, e Don’t Fade IV, un pop-rock quanto mai ingenuo. La chiusura è decretata dalla malinconia – anche nel titolo – di Check Out Time.

“Every Good Boy Deserves Fudge” è la rappresentazione della rottura. Con il passato, innanzitutto: i Mudhoney sono consapevoli di aver scritto la storia recente del movimento di cui fanno parte, ragion per cui iniziano a giocare contro se stessi, le loro passioni e inclinazioni artistiche. Ma rottura anche con il loro concetto di vita, così strafottente e disinteressato a ciò che succede nell’industria discografica. Per loro, suonare non è mai stato un mezzo per far soldi, per Arm e soci non è un’ossessione firmare per una major.

Tuttavia, dopo poche fortunate settimane dall’uscita di “Every Good Boy Deserves Fudge”, escono “Ten” dei Pearl Jam e “Nevermind” dei Nirvana, due dischi che trasformano il grunge da periferico movimento con pochi e fidati proseliti a industria mondiale. Le grandi label fiutano l’affare, tanto che i Mudhoney, anche a causa dei problemi finanziari della Sub Pop, cedono all’insistenza della Reprise di Frank Sinatra. La loro indolenza è intatta, ma dopo l’uscita di “Every Good Boy Deserves Fudge” capiscono di poter seguire le orme dei loro amici e mentori Sonic Youth, il cui conto in banca ha iniziato a collezionare zeri dopo l’approdo (da “Goo” in poi) alla scuderia Geffen.

Il sodalizio con l’etichetta di proprietà Warner durerà fino al 2000, giusto il tempo per quelli di Seattle di sistemare due o tre cose con banche e debitori. I Mudhoney torneranno a casa e lo faranno in grande stile, con un paio di antologie. La storia semplicemente non ha un lieto fine perché è ancora in corso, e se non l’avete ancora fatto, dopo “Every Good Boy Deserves Fudge” ascoltate “Digital Garbage”: è del 2018, ma sembra di essere nel ’91.

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