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Back In Time

“Beautiful Freak” degli Eels, ovvero la storia di come Mark Oliver Everett diventò una star

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Ci sono momenti, nella vita di un essere umano, in cui si ha la netta percezione di aver toccato il fondo. Mark Oliver Everett lo sa bene, perché ne ha vissuti decine. Un padre – l’illustre fisico Hugh Everett III – trovato morto nel letto una mattina del 1982; una madre morta a causa di un cancro; una sorella affetta da gravi problemi mentali, suicida giovanissima. La prima parte dell’esistenza di Mark, che si fa chiamare E per non confondersi con i suoi compagni di scuola e di college, non è stata certo una passeggiata.

Fin da ragazzino suona diversi strumenti, il primo amore è la batteria. Ascolta di tutto: ama il rock dei The Who, il folk di Neil Young, il soul di Ray Charles e i testi di Bob Dylan, ma nonostante registri una quantità sterminata di brani di sua composizione, non pensa mai fino in fondo di costruirsi una carriera da cantautore. Il suo primo vero album lo confeziona nel 1985, si intitola “A Bad Dude In Love”, lui ha 22 anni ma in una visione d’insieme sembra il frenetico sfogo da cameretta di un adolescente.

È triste Mark, vive nella provincia americana più nascosta, in una di quelle dimenticate cittadine della Virginia buone nemmeno per raccontare la grama vita familiare in qualche serie televisiva di scarso successo. Si iscrive al college, ma dura poco, annoiato dalla presenza di ragazzi che aspettavano proprio di raggiungere un campus per fare esperienze (sesso e droga) che lui aveva vissuto già anni prima. Così un giorno decide di scappare a Los Angeles, per capire se possa aiutarlo cambiare diametralmente la sua esistenza.

Non ci va con l’intento dichiarato di sfondare nel mondo della musica, nonostante le decine di brani registrati ogni mese sul suo quattro piste. Accade però, in modo assolutamente fortuito, che conosca John Carter, uno che in quel settore ci lavora e che in breve tempo lo introduce nella Polydor. Con la label losangelina E firma due album, dove riesce a mettere insieme le diverse sventure che può incontrare un uomo (“A Man Called E”, 1992) e tutto ciò che si prova quando finisce la storia d’amore più importante della vita (“Broken Toy Shop”, 1993).

Trattasi di dischi di buona fattura, ma troppo eterogenei. Sono lavori da cantautore, ma di certo nulla a che vedere con i suoi grandi idoli. Carter gli procura anche una serie di concerti in giro per la città, ma il pubblico è freddo nei confronti di un songwriter qualsiasi, benché molto intimista e autobiografico come E. In giro ormai c’è il grunge, che con “Ten” dei Pearl Jam e “Nevermind” dei Nirvana ha varcato i confini di Seattle e si è imposto al mondo intero: a Los Angeles non si ascolta altro. Per E è l’ennesimo sprofondo, non resta che ripartire da un altro punto.

Il problema, sembra ovvio, non sono tanto i testi: Mark sa tradurre in versi i suoi stati d’animo più profondi. Caso mai è la musica a non essere esattamente al passo con i tempi. Così decide di cambiare registro, riappropriandosi delle sue passioni maggiormente tendenti al rock. Ma non un rock qualsiasi, deve essere qualcosa di mai sentito: è così che nasce l’idea di associare i suoni delle chitarre sferraglianti ad effetti elettronici opportunamente assemblati, mischiare il ritmo sostenuto alla melodia più dolce, sussurrare frasi e poi cantarle a tutta voce, con il tipico timbro graffiato.

Questa miscela inizia a piacere alle radio locali, contattate nel frattempo dall’amico e ormai manager personale Carter. Gli ascoltatori chiedono con insistenza chi si celi dietro quel misterioso pseudonimo, mentre le rotazioni crescono a dismisura. E non è esattamente un ragazzo di compagnia: non sa se in fondo è pronto ad entrare nel music-business – finalmente dalla porta principale – figurarsi se intende formare una band. Ma è proprio quel che gli occorre, perché il successo è alle porte. In poco tempo forma un trio-base insieme al  batterista Jonathan Norton, detto Butch, e al bassista Tommy Walter, con l’idea di aggiungere turnisti all’occorrenza. Decidono di chiamarsi Eels: non che abbiano un particolare amore per le anguille, semplicemente Mark vuole che in un immaginario negozio di dischi, i suoi personali e quelli della band prendano posto gli uni di fianco agli altri. Nel frattempo, le offerte delle major fioccano, la più veloce a strappare la firma del trio è la Dreamworks di Steven Spielberg.

Il disco è praticamente pronto. Si intitola “Beautiful Freak”, e va obbligatoriamente sezionato in tre parti. Dal punto di vista strettamente musicale, gli Eels trovano la formula giusta miscelando sapientemente Flaming Lips, Portishead, Beck, Prince e tutto quanto a quei tempi era di successo e alieno rispetto al grunge. I testi, come il titolo del disco e la copertina lasciano intuire, sono un meraviglioso mix di diversità: malati mentali, tossicodipendenti, orfani, semplici emarginati sociali: non siamo molto lontani dagli angoli oscuri narrati dai primi Velvet Underground. Infine, i toni, la vera chicca della produzione di Everett. È sorprendente notare come i testi non siano affatto didascalici: “Beautiful Freak” non è un nefasto campionario di disadattati rassegnati al proprio destino, ma – al contrario – un vero e proprio inno in dodici brani sulla ricerca degli aspetti positivi dell’essere freak.

Il singolo Novocaine For The Soul – un sedativo per i dolori dell’anima – accende i motori e da il via a un viaggio attraverso i sentieri più reconditi della deformità umana. Si viaggia verso Susan’s House (secondo singolo), in un tragitto caratterizzato da vecchie pazze a cui hanno bruciato casa, adolescenti morti con un colpo in fronte o che si informano su come procurarsi il crack. Rags to Rags parla di fallimenti, quelli che tante volte E ha dovuto affrontare, chiedendosi ogni volta se fosse il caso di tornare in Virginia.

La title track e il suo seguito naturale My Beloved Monster, più che ballad, sono ninne nanne che decantano la bellezza della deformità, una condizione di vita che può essere fisica, ma anche mentale: non sentirsi pronti a vivere il mondo con la sua bellezza (Not Ready Yet), oppure essere rinchiusi e abusati (Mental), pensando che la malattia che ti raccontano sia una grossa bugia, in fondo, sono due facce della stessa medaglia.

Nel suo complicato rapporto con la fede, nel disco E riesce a piazzare Flower, una non-preghiera di un emarginato che chiede a un dio di spegnere la luce sul mondo perché non vuole più vedere la sua faccia riflessa allo specchio. D’altronde questo è un mondo in cui la facciata è tutto: in un allegorico locale (Guest List) entrano solo i belli, ossessionati all’idea di varcare quella soglia, tutti gli altri restano fuori. Da qualche parte, là fuori, c’è anche Spunky, un bambino costantemente minacciato di essere rispedito all’orfanotrofio.

Il disco si chiude con Your Lucky Day In Hell e Manchild, due pezzi autobiografici, che raccontano il passato di Mark in piccole frasi e mettono in risalto l’incomunicabilità, tratto indelebile lungo le quattro mura di casa Everett.

Nel breve volgere di qualche mese, la vita di E sarà travolta dal successo di “Beautiful Freak”, ma al contempo funestata dal suicidio della sorella e dalla scoperta del male incurabile che in poco tempo si porterà via sua madre. L’orologio biologico inverte così il giro delle sue lancette, passando da una meravigliosa vita da freak a due morti più o meno annunciate. Non c’è ancora musica, e nemmeno le parole, ma il tema portante di “Electro-shock Blues” è già davanti ai suoi occhi. Quel disco arriverà nel 1998, e sarà un capolavoro.

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