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“Danzig”: non un disco, ma una carriera

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Come se fosse una qualunque repubblica orientale, indipendente de facto, ma non riconosciuta da nessuno, poco più di trent’anni fa Glenn Danzig pubblicava quello che sarebbe diventato col tempo il suo lavoro più importante dopo la sbornia dei Misfits.

Oscuro, lineare e con un’anima blues, “Danzig” è l’album omonimo con il quale Glenn rivendica prepotentemente il proprio diritto di vivere al di fuori del contesto punk. Prodotto da un Rick Rubin all’apice dell’apoteosi, in quel magico momento della vita in cui tutto quello che tocca si trasforma in oro, il disco entra di buon diritto nel diadema che il barbuto produttore costruisce in quegli anni: “Reign in Blood” (1986) e “South of Heaven” (1988) degli Slayer, “Raising Hell” (1986) e “Tougher Than Leather” dei Run DMC, “Blood Sugar Sex Magic” (1991) dei Red Hot Chile Peppers, “American Recordings” di Johnny Cash (1994).

“Danzig” è un debutto fragoroso, che dopo la breve parentesi post Misfits con i Samhain, riporta in auge uno dei frontman più sfrontati ed energici che abbiano mai calcato i palchi della musica alternativa. I cardini sui quali il disco è ancorato sono tre: la voce di Danzig, un diabolico canto profondo e ruvido. Gli arrangiamenti essenziali, che creano pezzi chiari e immediati. La batteria secca e in primo piano che tutto scuote e illumina. Il resto lo fanno i sensuali accordi di blues, le immagini ostentatamente violente, le allusioni ironiche dei testi e l’approccio alla Bad Elvis che spaventa senza terrorizzare. Da un punto di vista musicale, la chitarra ha chiare influenze rock classiche, Black Sabbath, Led Zeppelin, AC/CD. John Christ (John Wolfgang Knoll) ha uno stile di esecuzione ruvidamente blues e un amore per niente celato per il pizzicato alla Randy Rhodes e Vivian Campbell. La batteria è pulita e distinta, secca e definitiva come i colpi di ascia di un qualunque Nicholson che bussa alla tua porta. Evidenti sono le influenze dei Black Sabbath di Tony Iommi, così come sono scontate le affinità con Elvis Presley e Jim Morrison.

Il disco è composto da dieci brani, uno dei quali, “Mother”, diventa una di quelle hit che la maggior parte delle altre band riusciranno solo a sognare durante la propria carriera. Anche se personalmente altri sono i brani che mi hanno fatto innamorare di questo sghembo e oscuro pezzo di pietra lavica: “She Rides” con la sua andatura claudicante down-tempo, “Am I Demon” e la sua chitarra tagliente (nonostante la vicinanza forse eccessiva a “Children Of The Grave” dei Black Sabbath) ed “Evil Thing”, che strazia le carni con il cantato trascinato tipico di Danzig.

Rimanendo nel contesto para mitologico creato dalle fantasie dell’autore stesso, il disco può tranquillamente essere elevato al rango di un Dio Minore. Non è un uragano come “Nevermind” dei Nirvana, che pochi anni dopo cambierà il corso della storia (musicale), ma un costrutto portatore di lucidità e luce (luciferino nel vero senso della parola) in grado di riuscire a fissare in modo indelebile i (nuovi) canoni del genere heavy metal.

La faccia da schiaffi di Mr. Anzalone e la sua capacità di creare e presentare una musica rock in stile sixties, ma oscura, è affascinante. “Danzig” (il disco) è l’acme di Danzig (l’autore). È il personal best giustamente guadagnato, attraverso un percorso il cui scopo di partenza non era di diventare un musicista professionista, ma di esprimere il proprio modo di essere e di vedere le cose. È un disco che spiega e condensa una carriera intera e di riflesso una lente che ci permette di leggere come fossero le cose (o almeno una parte di esse) trent’anni fa nel mondo del rock…

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