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Interviste

Il cammino delle tenebre e del piombo: intervista a Blak Saagan

Quest’estate Blak Saagan ha pubblicato il suo secondo album “Se ci fosse la luce sarebbe bellissimo” (qui la nostra recensione), una vera esplosione lucente in un mondo di tenebre, soprattutto dato il tema trattato, ovvero la vicenda di Aldo Moro, del suo rapimento e dell’assassinio. Una storia importante. Era giusto parlarne proprio con Samuele Gottardello e approfondire il tutto.

Dopo aver viaggiato nello spazio Blak Saagan torna sulla Terra ma decide di intraprendere un altro tipo di viaggio, questa volta nel tempo. Prima ancora di entrare nel merito del soggetto trattato ti chiederei il perché di questa scelta.

Sono molto curioso ed ho le mie fissazioni su argomenti e tematiche diversissime, passo dalla Storia Antica a quella Moderna, mi affascinano la psicanalisi, la filosofia e la tecnologia, sia quella contemporanea che quella retro-futurista. Così passo periodi a collezionare in maniera disordinata materiali su questi argomenti, guardo film e documentari, compro libri, leggo articoli. Si tratta di una ricerca personale, che faccio a prescindere dalla musica. Però è correlata con la musica, perché per suonare ho bisogno di svilupparmi un immaginario di riferimento. Qualcosa fatto di visioni, di simboli, di suoni, di ricordi, di emozioni. Insomma, una cosa complessa che richiede del tempo, almeno a me. Nel frattempo continuo a suonare, ho i miei strumenti quasi sempre montati e pian piano, mentre suono, le cose si mettono in ordine. Si uniscono tra loro, si creano connessioni tra le immagini, tra i testi e tra i suoni. Una mia fissazione è stata l’esplorazione del Cosmo, ho presto scoperto la figura del cosmologo Carl Sagan, e sono rimasto affascinato dal suo spirito: una concezione unitaria, rispettosa delle diversità, piccola ed enorme allo stesso tempo. Uno spirito che unisce la meditazione con la tecnologia. Dopo quel disco ho seguito altre fissazioni, tra le altre cose gli Anni di Piombo. Ed ecco come ho cominciato a sviluppare il nuovo disco.

Hai scelto un argomento che pesa ancora come un macigno sulla coscienza dello Stato (o meglio, uno dei tanti), ossia la vicenda di Aldo Moro, del suo sequestro, del cosiddetto Caso Moro, di tutto ciò che ha ruotato attorno a quei 55 giorni in cui la cosa pubblica si è messa a nudo e dai quali, pur essendo emerso il suo lato più oscuro e disumano. Anche in questo caso la domanda è: perché proprio Moro? E perché per il titolo hai scelto proprio quella frase tratta da quella che è comunemente intesa come la sua ultima lettera?

La vicenda di Aldo Moro è fondamentalmente una storia noir, ed io sono attratto dalle storie noir. E’ una vicenda misteriosa, oscura, dolorosa. All’inizio mi sembrava un tema davvero impossibile, temevo sarebbe stato frainteso o non capito del tutto. O giudicato troppo politico e quindi non interessante. Col tempo questi timori se ne sono andati ed è rimasta la certezza. “Se Ci Fosse Luce Sarebbe Bellissimo” è una frase stupenda, che dice molte cose a diverso livello. Parla del Caso Moro in particolare e della ricerca di una “Verità” storicopolitica degli Anni di Piombo che ancora tarda a venire. E’ una frase che poi parla di noi tutti, della nostra condizione esistenziale e di noi intesi come esseri umani mortali. L’ultima lettera di Moro è rivolta ai familiari. Si comprende che è consapevole che l’ultimatum sta per scadere e che la tragica condanna a morte è vicina. E’ una lettera di commiato, saluta tutti. Verso la fine della lettera scrive: “Vorrei capire con i miei piccoli occhi mortali come ci si vedrà dopo. Se ci fosse luce sarebbe bellissimo”. È una frase davvero struggente e significativa se si pensa che viene scritta da un cattolico praticante. Quel “se” condizionale, per me, esprime un dubbio, un piccolo dubbio commovente e davvero umano. Qualcosa che ci unisce tutti.

In presenza di un concept sì specifico e di rilievo quant’è difficile o, al contrario, semplice per te narrarne la cronaca senza l’ausilio delle parole ma sono tramite le sensazioni dettate dalla musica pura?

In realtà trovo molto più semplice descrivere le cose con la musica. A parole non credo di essere molto bravo e poi non sono minimamente un esperto di questo o quell’argomento. Il mio sapere è frutto di ricerche personali, una visione totalmente soggettiva. Quindi quello che racconto non è affatto la cronaca politica o nera, piuttosto si tratta della mia visione della vicenda che non ha la pretesa di raccontare la “Verità” o qualsiasi altro segreto. Può aiutare pensare al mio album come ad un film che parte realistico ma che si apre in scene oniriche ed a volte surreali. Ad esempio Convergenze parallele, la prima canzone dell’album, è un brano che vedrei bene come inizio di un film. Se non ricordo male è uno dei primi brani a cui ho lavorato, nello specifico avevo in mente i Kraftwerk ed una visione di immagini di strade, autostrade, ferrovie, auto e treni che scorrono, persone che camminano… Tutto che si intreccia in dissolvenze incrociate. Il brano che viene subito dopo è Scuola Hyperion, ed è un titolo che si ispira ad una parte della narrazione sul caso Moro che davvero sconfina nel complottismo. Brevemente, Hyperion era una scuola di lingue, fondata a Parigi da persone coinvolte e poi fuoriuscite dal nucleo originario delle BR. Questa la verità storica. Alcune teorie non confermate da sentenze giudiziari sostengono che l’attività fosse una copertura e che sotto si celasse un “centro direzionale” in cui si incrociavano membri di servizi segreti ed infiltrati nelle Brigate Rosse. Queste sono senza dubbio una vicenda ed una teoria che hanno stimolato la mia curiosità. Come vedi metto assieme due argomenti diversi, due fonti d’ispirazione diverse. Ecco perché il mio disco non è la cronaca di una vicenda ma, anzi, di una visione molto soggettiva che volutamente si prende delle libertà. Non mi interessa essere preciso nella ricostruzione, anche se adoro le ricostruzioni, ma al tempo stesso amo decostruire le ricostruzioni.

Come ti sei approcciato alla composizione dell’album e qual è stato il percorso seguito per arrivare alla sua realizzazione? Dai titoli dei brani sembra tu ti sia spinto oltre il racconto “ufficiale”, andando a toccare in particolar modo le zone d’ombra che vi si sono assiepate attorno.

Sì, le zone d’ombra sono una mia ossessione. Inoltre proprio quando mi stavo documentando l’ultima Commissione Parlamentare d’Inchiesta sul Caso Moro stava concludendo i suoi lavori. Era il 2017 e già pensare che ci fosse una Commissione Parlamentare che stava indagando sul Caso Moro era una cosa che ha molto attratto la mia curiosità. Quindi ho cominciato a seguire i lavori della Commissione. Devo dire che molti titoli, che corrispondono a precise tematiche e situazioni della vicenda, sono venuti fuori di conseguenza. Sempre nel 2017 il mio caro amico Paolo mi prestò una vera e propria pila di libri, inchieste fatte da giornalisti contemporanei. A questi ho aggiunto un po’ di “classici”. Son libri che mettono in discussione la narrazione che vuole le Brigate Rosse come unici responsabili della vicenda Moro.

Hai utilizzato praticamente solo macchinari analogici per realizzare “Se ci fosse la luce sarebbe bellissimo”, il che per me è affascinante, amandone il suono molto più di qualsiasi synth digitale, nonostante ormai la tecnologia si sia spinta davvero oltre le più estreme fantasie di qualche anno fa. Come mai questa scelta? Qual è il tuo legame con questo tipo di strumentazione?

Al di là del fatto che amo gli strumenti vecchi e ne compro ogni volta che posso, non ho nulla contro gli strumenti digitali. Il punto è che sono molto più pratico con i miei vecchi strumenti. L’organo Farfisa, ad esempio, è un mio vecchio amico, lo suono da almeno vent’anni e lo conosco bene, mi dà sicurezza. Prima lo suonavo con un gruppo synthpunk, i JohnWoo. Poi col tempo l’ho usato per “fare cose per le quali non era stato pensato”, ossia musica elettronica. Non avendo sempre suonato musica elettronica mi ci sono approcciato nella maniera più naive possibile, con quello che avevo in casa. Non avrei mai pensato poi di suonarla in pubblico e men che meno farci dei dischi. Col tempo imparato che avere un proprio suono è molto importante per chi fa questo tipo di musica.

Al di là delle influenze più propriamente legate alle colonne sonore ho sentito parecchi rimandi alle avanguardie più “pop” degli anni ’70 e ’80, tra post punk, wave, minimalismo e via discorrendo, come a voler immergere l’ascoltatore esattamente negli anni in cui è ambientata la storia. È cosa voluta? Cosa ti ha più influenzato di quel periodo?

Dopo “A Personal Voyage” volevo aggiungere una dimensione meno rassicurante alla mia musica. Mi sono sempre sentito molto vicino alla musica psichedelica ed all’elettronica “da viaggio”, ma stavolta volevo lavorare anche su atmosfere di suspence, a momenti aggressive ed a tratti malinconiche. Inoltre amo da sempre il post-punk. Ad un certo punto queste esigenze si sono collegate da sole. Nella mia testa, nelle mie mani. Però se ci pensi il 1978, anno in cui è basato il mio disco, è un anno in cui nello stesso momento esistevano i Joy Division e Franco Battiato. Brian Eno e i Chrisma. Morricone e la library italiana. I Kraftwek e Klaus Shultze ed il dub di Prince Far I. Un bacino musicale e culturale estremamente variegato e stimolante.

Tornando alla tua scelta narrativa e al concept, come dicevo in sede di recensione ho più che l’impressione che in Italia si sia passati da avere una buona schiera di gruppi e artisti capaci di toccare temi importanti, pesanti, anche pericolosi ad un sostanziale vuoto in cui nessuno sembra avere più il coraggio, o la voglia, di farlo. È una cosa a cui hai pensato mentre decidevi di narrare il Caso Moro?

Devo ammettere la mia difficoltà ad analizzare la questione musicale. Anche se il vuoto tematico nella musica mainstream che descrivi anch’io lo percepisco. Mentre componevo il disco non ci ho mai pensato, anzi ho pensato che un argomento del genere avrebbe reso il mio disco difficile. Però non facendo parte del mondo mainstream diciamo che non mi sono mai posto la questione. Una cosa bella dell’essere un musicista underground non professionista è che puoi fare quello che ti pare. Quello che speravo e tutt’ora spero è che l’ascolto magari possa stimolare la curiosità di qualcuno o qualcuna verso certe tematiche. Molto importanti sono stati i feedback che ho ricevuto da alcuni amici fidati durante la lavorazione del disco, ad esempio quando ho raccontato a Jonathan della Maple Death Records del disco che stavo preparando la sua reazione entusiasta è stata molto importante per me. Ho poi scritto agli amici dell’etichetta svizzera Kakakids Records, spiegando anche a loro il disco. La loro risposta è stata che avrebbero volentieri coprodotto il disco. Trattandosi di ragazzi molto giovani, e non italiani, si è trattato di un importante momento di verifica che quello che stavo facendo era interessante anche per altre persone, diverse da me.

Ti ringrazio per il tempo che hai dedicato a ImpattoSonoro e grazie ancora per averci donato questo album, che per me è cosa importante ben oltre la musica, poiché rende grazie alla memoria, che pare sfuggire sempre più.

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