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Interviste

Il suono liquido della lentezza: intervista a Populous

Tornato questa estate con il nuovo album “Stasi” (qui la nostra recensione), Populous, al secolo Andrea Mangia, si è confermato come uno dei producer più ispirati della Penisola. Il suo ultimo lavoro è un viaggio più interiore che fisico nella musica ambient, ispirato dalla sua terra e dal suo mare, colonna sonora perfetta per le meditazioni casalinghe a cui tutti, volenti o nolenti, siamo stati chiamati nell’ultimo anno e mezzo. Ne abbiamo parlato direttamente con lui.

Prima di entrare all’interno del tuo nuovo lavoro, vorrei partire dal titolo. “Stasi” suggerisce un po’ i suoni e i temi ricorrenti al suo interno, ma potrebbe essere anche un riassunto ermetico della condizione che abbiamo vissuto e che, sotto alcuni punti di vista, stiamo ancora vivendo da un anno e mezzo, se non addirittura un invito alla lentezza in un mondo iperveloce. Esiste una lettura corretta? Cosa puoi dirci a riguardo?

Mi piace l’idea che il titolo sia aperto a più letture, legare un disco ad un periodo così assurdo potrebbe essere controproducente. A volte le cose succedono per darci delle risposte, per farci aprire gli occhi facendoci vedere e scoprire cose che fino ad allora non avevamo mai notato.

Qualche tempo fa, leggevo un tuo post su Facebook nel quale accennavi a un recente avvicinamento delle persone alla musica ambient. Questa cosa mi ha un po’ incuriosito: è una sensazione personale o qualcosa che hai verificato in pratica?

Mi sembra un fatto più che un’idea personale. Molti artisti (anche famosi) si sono avvicinati a questi suoni. Se fosse anche solo una moda passeggera m’importa poco, cose del genere possono solo aggiungere e mai togliere.

Il tuo percorso artistico è segnato da una costante ricerca e questo si è tradotto in dischi mai troppo simili tra loro. Con “Stasi”, in un certo senso, sei tornato alle origini, alla musica meditativa con cui avevamo imparato a conoscerti. C’è qualcosa che ti ha portato a questa scelta? Quanto questo disco è figlio di questo periodo storico?

Erano anni e anni che volevo tornare ai suoni di “Quipo” e “Queue for love”, ma mi trovavo ormai invischiato in situazioni / serate / eventi sempre più dancefloor oriented. Non era facile fermare tutto e produrre un disco come “Stasi”. Poi il corso degli eventi ha fatto il resto.

Qualche spinta in questa direzione, paradossalmente, si notava già in “W”. Penso a “Flores no mar” e alla coda, un po’ sorprendente, ma azzeccatissima. Avevi già pensato in quel periodo di tornare all’ambient?

Si totalmente! Quella coda l’avrei fatta durare anche 20 minuti, ma i ragazzi della label non sarebbero stati altrettanto entusiasti. LOL

Rispetto agli inizi, però, sembrano leggermente cambiati i riferimenti: un po’ meno Boards of Canada, un po’ più Midori Takada, con qualche traccia di William Basinski.

Sono tutti artisti che, letteralmente, idolatro. Quando penso alla musica sacra, qualcosa di più vicino ad un culto che ad un insieme di note/ritmi/suoni, penso anche a questi 3 artisti. Oltre che a Babato, Brian Eno, Susumu Yokota, Biosphere etc.

Una cosa che accomuna i tuoi dischi è una certa componente psichedelica. Seppure in modi e forme diversi, trovo che sia sempre riconoscibile e “Stasi” non fa eccezione. Che rapporto hai con questo tipo di sonorità?

Non mi drogo più, se è questo che vuoi sapere. La mia mente ormai è psichedelica di default.

La scelta di mixare “Stasi” interamente in analogico deriva anche dal desiderio di ottenere questo tipo di effetto?

Volevo un suono degradato, sporco, poco hi-fi. Quando cerco di rilassarmi difficilmente tollero le frequenze molto brillanti, così ho cercato di mixare il disco in modo tale da poter arrotondare quella parte dello spettro sonoro. Mi piaceva inoltre dare la sensazione di essere sott’acqua, visto che il mare è elemento essenziale del concept.

Sempre a proposito di psichedelia, pensavo a “Sentiero luminoso”, uno dei pezzi più ipnotici e meno immediati del disco. L’atmosfera è degna di un rito ancestrale e il titolo mi ha fatto pensare a Sendero Luminoso e, di riflesso al Sudamerica, in senso lato. Anche perché immagino non ci sia un reale riferimento politico. Ci racconti un po’ il pezzo?

Ero in Peru a fare una data. Ne ho approfittato per visitare Lima. Ero su una zona archeologica che era sonorizzata con una filodiffusione completamente sfondata. Per cui c’era sto suono di flauto pan accidentalmente distorto che ho campionato col mio iPhone. Davvero lo-fi. Ad un certo punto, da qualche parte, salta fuori il nome di Sendero Luminoso. Lo trovavo bellissimo come nome. Così salvo la registrazione in questo modo. Quando ho scoperto di cosa si trattasse in realtà era troppo tardi, avevo già il progetto di Ableton chiamato in quel modo!

Foto: Francesco Sambati

E il tuo rapporto col trip-hop, invece? In “Stasi”, in alcuni passaggi, si nota anche qualche richiamo bristoliano: penso a “Luna liquida”, nonostante le marimbe.

Il trip-hop è stata una grande, grandissima influenza. Devo dire che la scelta di aggiungere a “Stasi” l’elemento ritmico in bassa battuta deriva dalla mia grande passione per quel periodo. Peraltro mi fa ridere pensare che i primi dischi bristoliani me li abbia passati mio padre.

I pezzi di “Stasi” sono praticamente sempre capaci di restituire l’immaginario evocato dal titolo. In particolare, mi ha colpito “L’architettura del mare”, perché sembra contemporaneamente disegnare il movimento dei pesci e quello lento del mare di notte. Hai utilizzato anche field recordings per ottenere questo genere di effetti?

I field recordings ci sono in ogni pezzo del disco, ma ho cercato di usarli in maniera subdola, obliqua e trasversale. Sono quasi sempre pitchati ed effettati. mettere gli uccellini a + 10db nei pezzi mi ha un po’ stufato. È molto di moda e penso che ci sia bisogno di creatività anche nell’uso di elementi ornamentali come i suoni d’ambiente.

“Meditazione urbana”, invece, abbandona per un attimo i luoghi naturali e dà l’impressione di calarsi in un’ambientazione diversa, come quella di una metropoli grigia, un po’ asfissiante. È così? La scelta di collocarla alla fine, prima solamente del pezzo più lungo del lotto, sembra un modo per creare tensione e poi scioglierla lentamente.

Quel titolo è nato davvero per gioco, perché il pezzo ruota attorno a questi samples di gamelan tibetani, molto “meditativi”, che ho incastrato su questo beat hip-hop, molto “urban”. Ecco spiegato l’ossimoro del titolo.

Cosa puoi dirci sulla scelta di utilizzare i pezzi di “Stasi” per sonorizzare un corso di meditazione? A occhio e croce, non conosco altri artisti che abbiano fatto qualcosa di simile.

Neppure io al momento. Mi sembra una cosa interessante e nuova. Faremo degli esperimenti “live” con alcuni istruttori di yoga. Sono molto curioso!

E invece, dopo aver esplorato sonorità afro, cumbia digitale, ritmi sudamericani ed essere tornato al downtempo, hai già qualcosa in mente per i prossimi lavori in studio?

Voglio ballare!

Questa è l’ultima, giuro. Negli ultimi anni, in Italia, sono stati pubblicati diversi dischi elettronici – in senso ampio, naturalmente – parecchio interessanti. Come valuti lo stato di salute del genere e di questo movimento alle nostre latitudini? E come ti senti, rispetto a esso? Intendo: sei ormai un artista di riferimento per chiunque abbia una certa familiarità con l’elettronica in Italia, ma il contesto rimane più assimilabile alla nicchia che al mainstream.

In realtà io noto che l’elettronica si è ormai definitivamente infiltrata nel mainstream. Il problema è che nel 99,9% dei casi è un elettronica cheap e senza spessore, assolutamente vuota di contenuti. Un po’ spiace, soprattutto se guardiamo al pop straniero (Billie Eilish? Rosalia? Beyonce? Charli XCX?) che proprio in quei suoni ha trovato linfa vitale. Per fortuna che in Italia abbiamo artisti di elettronica “avant” rispettatissimi in tutto il mondo. I nomi non li faccio neppure, li conosciamo già.

Speriamo di tornare presto a ballare sulla tua musica, grazie mille per il tuo tempo!

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