Impatto Sonoro
Menu

Moby – Oltre Ogni Limite


Scheda

Autore: Moby
Uscita: 15/03/2021
Editore: MGMT
Pagine: 416
Prezzo: € 15,50

Amazon button


Si era nei primi mesi del Nuovo Millennio ed MTV spingeva senza pietà alcuna un brano di una tristezza infinita chiamato Why Does My Heart Feel So Bad?, e per noi adolescenti infuriati con il mondo era qualcosa di assolutamente strambo. Più il 2000 andava avanti e meno quel singolo usciva dall’heavy rotation, e come un brano simile potesse continuare a girare tra Limp Bizkit e J.Lo francamente non ce lo si spiegava. Poi uscì “Kid A” dei Radiohead e un mondo si dischiuse, almeno per il sottoscritto.

Non c’era Wikipedia e quindi per noi “Play” di Moby era il suo esordio, e scoprimmo di lì a poco che era il suo quinto full length, ma che Richard Hall Melville militò in gioventù in un gruppo hardcore (e dopo parecchi anni venimmo anche a conoscenza del nome: Vatican Commando, mavaviava). Moby era, assieme a pochi altri, la connessione vivente tra gente che ascoltava musica iperdura e il mondo dei club e dell’elettronica, quella sì da rave, ma un rave da ascoltare mentre si piange demoliti dall’esistenza. Può una persona essere tanto a fondo nel baratro per scrivere brani simili? Ebbene sì, ma non sapevo ancora quanto, non come dopo aver letto il suo secondo memoir che nella sua versione italiana prende il titolo “Oltre ogni limite”.

La scelta di utilizzare una frase di questo tipo dà l’idea di cosa si annida nelle quattrocento pagine dell’autobiografia, anche se personalmente avrei tenuto l’originale “Then It Fell Apart” (frase mutuata da Extreme Ways), perché è sì vero che Moby va oltre il limite, ma è ancor più vero il decadimento che lo porta a superarlo. Anche la copertina, ovvero quella del disco del 1999, non è il massimo, poiché non rende l’idea di disperazione di fondo, mentre l’originale colpisce in pieno. I capitoli alternano gli anni di vita del musicista del Connecticut, tra la sua infanzia e gli anni che vanno da “Play” ad appena prima della pubblicazione di “Wait For Me”, e non c’è un solo attimo di pace e tranquillità.

Lo stile (i gap temporali li prende da Vonnegut, a suo dire) è discrepante, tanto da sembrare una persona quando parla della sua infanzia e tutta un’altra quando parla dei suoi anni d’oro. Ma qui di oro non ce n’è: si trova una marea di autocommiserazione terrificante, la dimostrazione nero su bianco che la vita delle rockstar, anche se cercata come quella di Richard, non sia in grado di lenire i demoni che si annidano delle persone. Pare di essere finiti in un condotto oscuro che passa attraverso l’America degli hippie, spesso dipinti come mostri, visti dagli occhi di un bambino che non poteva far altro che sorbirseli, fino a quella alternativa di fine ’90 e quella oscenamente gentrificata che vediamo ancora oggi, e Moby si trova sempre nel mezzo, in balìa di se stesso, della fama e di problemi psichici annegati negli eccessi in un’eterna insoddisfazione capace di fare a pezzi tutto, anche milioni di dollari.

È come se, durante la stesura, non riuscisse a dare soluzione ai propri dubbi e, chiaramente, il lettore si trova di fronte al suo, di dubbio: “Può il libro di una rockstar essere schietto?”. Bisogna dare il beneficio del dubbio, per l’appunto, e ricordare che si sta parlando di persone. E le persone non sempre stanno bene, anche nell’agio, anzi, spesso sono attanagliate da condizioni ancor peggiori di tante altre, pur nel proprio essere privilegiati. Feste, concerti mastodontici, dischi d’oro e di platino, star di ogni tipo, storie d’amore con persone che noi ci sogniamo letteralmente la notte, il tutto raccontato con un groppo in gola che non vuole sciogliersi, avvelenando, dalla prima all’ultima pagina.

Eccessivo. Pure troppo. E se è tutto vero, come assicura Moby, ora sì che capisco il senso di quel singolo ascoltato alla nausea 21 anni fa. Fin troppo bene.

Piaciuto l'articolo? Diffondi il verbo!

Altre Recensioni Cinematografiche