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“Scary Monsters”: David Bowie, i suoi mostri e un pagliaccio sulla spiaggia

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“Mostri spaventosi, super viscidi / Mi fanno scappare, scappare terrorizzato”

Non è ben chiaro quale fosse il concept, se mai ce n’era uno, dietro a “Scary Monsters (and Super Creeps)”. David Bowie si prese tre mesi per scrivere i testi. Come racconta il suo braccio destro e co-produttore Tony Visconti: “ci dicevamo, il prossimo disco dovrà essere il nostro “Sgt. Pepper’s”. I dischi di Berlino – “Low”, “Heroes” e “Lodger” – li abbiamo fatti in 5 settimane ciascuno. Non puoi fare un “Sgt. Pepper’s” in così poco tempo. Per cui, con “Scary Monsters” ci concedemmo il lusso di considerare tutti i modi possibili di realizzarlo. Questa fu la premessa. E ci prendemmo molto sul serio”. 

Con queste premesse, viene da pensare, ci dev’essere un concept. Saranno i “mostri spaventosi (e super viscidi)”? E questi mostri dove sono poi? Era Bowie stesso il mostro, oppure erano intorno a lui o, peggio, dentro di lui? Certo è che l’artista veniva da anni di tossicodipendenza importante: la seconda metà degli anni ’70 erano stati caratterizzati da un abuso di cocaina, cui possiamo attribuire alcune uscite all’epoca non troppe felici del “duca bianco”. Tipo: “ci serve un dittatore, io sarei un ottimo dittatore”. Quindi, insomma, gli estremi per sospettare che, a quel punto, i “mostri spaventosi” albergassero in lui, ci sono tutti. 

Eppure non è che il tema venga sviluppato più di tanto, lungo il disco, a parte la title-track. E se ti metti a guardare bene i testi, non si riesce poi a capire bene a cosa siano serviti quei tre mesi, se non forse a confonderci le idee. Non certo ad illuminarci con un concept forte e portante su cui riflettere. 

Tutto ciò mi fa venire in mente il dibattito, che stavo leggendo recentemente, su quanto e se importino per noi, non-anglofoni, i testi nel rock. Forse poco o nulla. Forse è anche un bene che certe robe che cantano i nostri idoli ci siano straniere: “su per la collina all’indietro / starò bene”, canta Bowie in Up The Hill Backwards. Una melodia, cantata a coro  e pazzescamente catchy, che s’innesta su un ritmo pesante, militare, in 2/4. Per un risultato che ti viene voglia di cantarlo a squarciagola mentre marci come un soldato nazista, agli ordini del dittatore Bowie. Che te ne può fregare allora della metafora (perché deve essere una metafora, sennò che è?) dell’andare all’indietro su per la collina? Meglio cantare a squarciagola nella lingua di Shakespeare e che gli anglofoni si arrangino a loro modo.

Che poi le prime parole del disco, su It’s No Game, sono pure in giapponese e allora vai a capire quello che recita l’attrice Michi Horita, mentre Robert Fripp violenta la sua Gibson, preconizzando i King Crimson di lì prossimi a tornare e Bowie urla come se lo torturassero: “Non è un gioco!”. 

Perché il punto dell’album uscito il 12 settembre 1980 è un altro. Almeno per me, che non me ne frega una mazza di significati troppo reconditi e metafore. Il punto è che il disco decolla e prosegue con una serie di tracce micidiali, almeno sei, una dietro l’altra. Con Robert Fripp che, in 5 di esse, si affianca al famoso trio D.A.M.: la batteria di Dennis Davis, la chitarra di Carlos Alomar, il basso di George Murray.  E al pianoforte, in tre tracce, Roy Bittan, della E Street Band, prestato da Springsteen che stava registrando “The River” nello studio accanto. Da It’s No Game a Teenage Wildlife è una successione che non ti da tregua. Perfettamente scandita nei ritmi: ora industrial, ora funky, ora beat, sempre e comunque portatori di una tensione immensa che ti tiene dritti i peli sul braccio per una bella mezz’ora.

E piantata in mezzo a questa scaletta c’è Ashes To Ashes. Dio mio onnipotente, madresantissima: Ashes To Ashes! Basso e batteria funky,  chitarra ritmica in levare, Chuck Hammer (già con Lou Reed) con la sua chitarra synth, una melodia che una volta che l’ascolti ti perseguiterà per il resto della tua vita, cantata da Bowie con una voce che cambia registro a più riprese durante il pezzo. Sembra che interpreta più parti, più personaggi in una sola canzone. Recita, come sa fare solo lui, David e ritira fuori il vecchio Maggiore Tom. “Lo sappiamo che il Maggiore Tom è un fattone”. Ecco, probabilmente molti non lo sapevano in quel 1980, ma lui non aveva remore, Bowie. Quando mai le aveva avute? Quando mai aveva nascosto qualcosa, della sua sessualità, del suo mondo e ora delle sue dipendenze? Pur nascondendosi dietro agli infiniti personaggi: Ziggy, Aladdin, il Duca Bianco, Tom, ecc… Come se non fosse lui, in fondo. Come se fosse sempre un altro. Che dicesse cose giuste e belle, come quando Ziggy urlava messaggi di amore al pubblico dei giovani che lo adoravano. O i deliri pseudo nazisti del duca bianco.

La verità e torniamo al punto, è che bastano queste prime sei tracce a fare di “Scary Monsters (and Super Creeps)” il miglior disco di Bowie in assoluto, a detta di molti. E anche secondo me. Che non ho un rapporto, a differenza di tanti, di adorazione illimitata e aprioristica per qualunque minchiata EGLI (maiuscole maiestatis comunque obbligatorie) abbia fatto. Che distinguo e seleziono. E quindi, posso dirlo: il quattordicesimo (a soli 33 anni, badate bene) disco di Bowie è una roba pazzesca che se non stai attento e ci finisci dentro una sera, ci rimani intrappolato finché non ti cascano i denti. Non è “soltanto” il più grande disco di Bowie. È il più grande disco di qualcosa ancora più grande di Bowie, se possibile.

Avete presente Fashion, la quinta traccia di questa progressione perfetta?!

“C’è un ballo nuovo di zecca ma non ne so il nome / Che gente che viene da case malfamate balla tutto il tempo / Una roba grossa e banale, piena di paura e tensione / La fanno laggiù ma non la faremo qui / Fashion! Gira a sinistra / Fashion! Gira a destra / Ooh, Fashion / Siamo una banda di scagnozzi e stiamo venendo in città / Beep-beep, beep-beep” 

Dice proprio “beep-beep”, due volte e questa non è una metafora. Qui, le cose stanno proprio così: “un ballo nuovo di zecca….pieno di paura e tensione….una roba grossa e banale”. Ecco che Bowie ha inventato gli anni ’80. In queste sei canzoni c’è tutto quello che sarebbe venuto nel decennio appena iniziato. Tutta, ma proprio tutta la new wave; che viene da chiedersi perché poi l’hanno fatta visto che l’aveva fatta tutta lui in quei 30 minuti, in quelle sei tracce. Il movimento new romantic, la malinconia, la superficialità ricercata, l’edonismo, il ritmo sparato, i synth che ruttano suoni sconclusionati, Robert Fripp che fissa nuove frontiere per il suono della chitarra elettrica.

E infine c’è l’apoteosi di Teenage Wildlife, una canzone che è la quintessenza del new romantic, in cui Bowie si rivolge “a un mitico fratellino adolescente, se solo ne avessi uno, o forse a me stesso adolescente, cercando di correggere quelle cose che uno pensa di avere sbagliato”. Ma soprattutto, direi, la canzone in cui Robert Fripp, ancora lui, tira fuori l’assolo che non ti aspetti da lui. All’inizio sembra che voglia rifare il verso a se stesso in Heroes, poi inizia a prendere delle scale blues e il tutto assume un tono leggero, leggero e l’atmosfera si fa eterea, mentre tu ti ritrovi a ringraziare il Dio della musica perché ha fatto David Bowie, perché gli ha messo al suo fianco Visconti, Fripp, Hammer, Alomar, Murray, Davis e tutti gli altri. 

E poi….per me il disco poteva anche finire qui. Non mi dilungherò su come da Scream Like a Baby in poi, la tensione e l’ispirazione sembrano scemare magicamente. Perché alla fine, non sono sicuro di essere mai riuscito ad ascoltare per intero le tracce che rimangono fino in fondo, tale è il calo di adrenalina che mi provocano. Che poi, prova tu a fargliene una colpa a Bowie & c., dopo trenta minuti di musica come quella. E viene pure il sospetto legittimo che It’s No Game (part 2), una versione rallentata e melodica dell’esplosiva traccia iniziale, sia stata messa lì in chiusura non tanto come riempitivo ma per cercare di farti ricordare come il tutto era cominciato e farti perdonare il calo di tensione e ispirazione, con la speranza che rimetti il disco daccapo e ricominci. 

Perché poi alla fine il punto per Bowie era un altro e gli si svelò a disco finito, il giorno che stava lavorando su una spiaggia al costosissimo video di Ashes To Ashes. Un anziano signore portava a spasso il cane e interferiva con le riprese e il lavoro della troupe. Il regista gli si avvicinò seccato: “ma lo sai chi è quello?”, lo apostrofò indicandogli David in abito da scena, lo stesso con cui è ritratto sulla copertina dell’album. “Un cazzone vestito da pagliaccio?” – rispose placido l’ignaro signore. “Fu una rivelazione” – ammise Bowie – “Mi rimise al mio posto e mi fece capire. È vero. Sono solo un cazzone vestito da pagliaccio”. Altro che mostri spaventosi e prendersi “molto sul serio”. 

Beep-beep (due volte)

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