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Back In Time

L’unico posto in cui vorrei essere ora, “In A Bar Under The Sea”

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“In A Bar, Under The Sea”, prodotto da Island Records, è il secondo album dei dEUS, band belga attualmente composta da Tom Barman (voce, chitarra), Klaas Janzoons (tastiera, violino), Stéphane Misseghers (batteria), Alan Gevaert (basso) e Bruno De Groote (chitarra, seconda voce). La line-up di “In A Bar, Under The Sea” vede invece Stef Camil Carlens al basso e alle percussioni, suonate inoltre da Eric Drew Feldman, che vediamo anche al piano; Craig Ward e Rudy Trouvé alla chitarra e alla seconda voce, Julle De Borgher alla batteria, Pieter Lamot al trombone, Ian Humphries e Charles Mutter al violino, Nic Pendlebury alla viola, Deirdre Cooper al violoncello, Dana Colley al sax, Piet Jorens sempre al piano e al gong e Bart Maris alla tromba.

È il settembre del 1996, la vita era ancora tutta (o quasi) analogica e quell’atmosfera vintage da foto istantanea che noi ora cerchiamo di riprodurre tramite filtri su Instagram era la realtà; e, mentre il ruock cominciava la sua lenta discesa verso nicchie di amanti sempre meno numerosi, io invece sarei nata circa tre anni e mezzo dopo. In questo panorama pre-apocalittico si colloca “In A Bar, Under The Sea”, una gozzoviglia sperimentale di sonorità ambient, jazz, blues e punk che comprendono riff di chitarra che bucano il cervello, voci invadenti che si sovrappongono, percussioni esotiche, assoli di tromba, violini ansiogeni e testi al limite del nichilismo più oscuro.

A circa 18 anni di distanza dall’apocalisse di cui sopra, una me un po’ più giovane ma non molto più spensierata vagava per i meandri di Spotify alla ricerca di qualcosa di nuovo da ascoltare, e i maggici algoritmi di quella piattaforma che “è uno schifo per i musicisti, perché non si vendono più dischi, vinili e cassette come prima!!” mi consigliavano “Pocket Revolution”. Prima di allora non avevo mai sentito parlare dei dEUS; così, mentre piangevo come una disperata sulle note di 7 Days, 7 Weeks, andai a cercare qualche informazione e la cosa che più mi sorprese fu la scoperta che i dEUS sono una band belga. Cosa vi devo dire, mi aspettavo cantassero in francese a quel punto.

Ritornando a “In A Bar, Under The Sea”, le prime sorprese arrivano a partire da Little Arithmetics, che ricorda un pezzo post punk alla La Femme e fa venire voglia di essere ad una di quelle serate estive con lucine indie appese agli alberi, in cui si balla senza pensare troppo, finché non arriva la parte finale della canzone, che pare essere uno sfogo totalmente inaspettato e la cui scia è ripresa in Gimme The Heat. Pezzo che per me equivale ad una sbadilata sui denti emotiva, Gimme The Heat è arricchito da un violino che dona al tutto una sensazione di irrequietezza e inquietudine in seguito ridimensionata da ritornelli alla Blur, che inizialmente fanno pensare che tutto stia andando a meraviglia, per poi intristirsi (e intristirci) un (bel) po’.

E infatti Serpentine ci butta nella melanconia più totale, mentre Supermarketsong ci trasporta in uno spot pubblicitario americano anni ’60, un po’ Beach Boys un po’ Mad Men, anche se a me viene da pensare ad una di quelle cucine color pastello nelle case di chi cercava di realizzare il proprio American Dream. Poi così, de botto, senza senso, ci ritroviamo ad un concerto punk con Memory Of A Festival.

Nine Threads, brano jazz capitanato da una tromba, al contrario mi fa pensare a degli infelici che si rifugiano in un’osteria nella periferia di Parigi per bere vino e riflettere (o smettere di farlo) su ciò che nella loro vita non è andato bene, e proprio questo senso di malinconia infinita è quello che domina Disappointed In The Sun, che musicalmente ricorda un pezzo dei Beatles. Poi però il testo, in cui ci scappa una frasettina del tipo: “Need I say my only wish was to escape my earthly life” ci trasporta da tutt’altra parte che in the Sky, with Lucy and Diamonds.

Wake Me Up Before I Sleep è la batosta finale, nonché l’ultimo pezzo di “In A Bar, Under The Sea” e proprio il suo posizionamento evoca un senso di totale impotenza e rassegnazione, sottolineato dalle sonorità estremamente languide che lo caratterizzano.

Sicuramente non si tratta di musica leggera (“anzi, leggerissima…”) e come prerequisito fondamentale all’ascolto dell’album consiglio uno stato d’animo non particolarmente cupo; ma “In A Bar, Under The Sea” è un piccolo gioiellino che ha solo bisogno di un po’ d’attenzione per regalare a noi ascoltatori sensazioni e riflessioni che spaziano in tanti ambiti della vita umana, ma che poi ci portano sempre allo stesso punto: la vita a tratti fa schifo, ma va bene così.

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