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Back In Time

Nell’oscurità senza stelle le meduse indicano la via: i vent’anni di “Solo un grande sasso”

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Quando hai 15 anni spesso non riconosceresti una cosa bella nemmeno se ti sbattesse dritta in faccia. La cantante del mio gruppo dell’epoca, il primo in assoluto, un’accozzaglia di cover tra Radiohead, Muse, Queen e altra roba che forse nemmeno ricordo, un giorno mi piazzò sotto il naso il debutto dei Verdena. Quel pomeriggio non avevo molto da fare, quindi tirai fuori il mio lettore CD portatile e lo ascoltai lì dov’ero. Lei pensava potesse piacermi, ma le melodie che sentivo per me erano troppo…ma che ne so. Pensavo zuccherose, chissà che mi passava per la testa, ma intanto era così. Non potevo farci niente.

Il tempo passava ma continuavo a pensare a quella band, chissà perché, dato che non mi erano piaciuti. Qualcosa si era fatto strada nella mia testa di cazzo. Un giorno, qualche mese dopo, finii per comprare non so più quale giornale e ci trovai la recensione di “Solo un grande sasso”. Rieccoli lì. Il loro secondo album, prodotto da Manuel Agnelli. C’è da considerare che la mia fissa per gli Afterhours era al suo apice, e dunque forse bastò quello. Dovevo provare a sentirlo, tuttavia era un’epoca in cui internet era quel che era, il mio modem era quel che era, e io ho sempre avuto questo demone che mi sussurrava all’orecchio di comprare gli album, anche a scatola chiusa, anche se potenzialmente potevano non piacermi. Non navigando nell’oro dovetti attendere di raggranellare la cifra necessaria all’acquisto. Insomma, è la solita storia di questo tipo, questa storia, di quelle che raccontiamo di continuo, di un tempo che non c’è più, in cui siamo cresciuti e si è trasformato in altro. E noi con lui.

I dischi sono un’esperienza, e in questi vent’anni la cosa è rimasta tale, anche se non è propriamente vero. Le cose sono cambiate, ma gli oggetti no e nemmeno quello che proviamo quando ce li rigiriamo in mano, rimirandoli. Non sono bastati diversi lustri a impedirmi di ritentare di sfruttare la visione stereoscopica delle due foto poste in apertura del libretto. E ancora non funziona. Nel disclaimer lo dice che potrebbe risultare impossibile goderne se si hanno problemi di vista. E i miei occhiali sono fondi di bottiglia. Nemmeno i sentimenti passano, si dice si attenuino, è possibile capiti, non a me, non con “Solo un grande sasso”.

Rimasi sbalordito quando la musica si propagò nelle mie cuffie. Volevo sentirlo dritto nel mio cervello, per non distrarmi, per non sbagliarmi, per capire se davvero non mi piacevano i Verdena. Cambiò tutto in un attimo, nel giro di due minuti e mezzo. Ero al cospetto di qualcos’altro, un mondo sommerso e rarefatto, adulto, così distante dall’altro che avevo avuto modo di allontanare, forse troppo presto. La fretta dei 15 anni. In quel momento nel tempo in cui era vero che un produttore poteva significare lo sprint nell’evoluzione di un gruppo (ci credevo allora, ci credo ancora), colui che mi aveva convinto a comprare questo CD stava a lato della creazione, il cui nucleo formato da Alberto, Roberta e Luca dimostrava una capacità innata di librarsi in universi paralleli, come se avessero una chiave speciale che solo loro erano in grado di utilizzare.

In quel 2001 in cui una manciata di canzoni potevano essere un’opera compiuta, questa lo era e assurgeva di diritto nell’oltre, un luogo in cui non essere più che semplici teenager dava significato all’idea di “crescita”. Un reame immaginifico e subacqueo, lo si poteva sentire dai suoni, “ambience” diremmo noi scribacchini, una mareggiata sentimentale che si espande in ogni interstizio riempiendo lo spazio circostanze. Strumenti del passato costruiscono il presente, il futuro, tra voci di cristallo straziato, le parole che si esplodono come pezzi di un puzzle che non vuole ricomporsi (né mai lo farà), l’urgenza di quel rock di cui si parla sempre a sproposito – lo si è sempre fatto, basta con la stronzata che solo oggi lo si faccia – che non è solo meditativa, ma brucia di un’intensità e un calore folli, in quei minutaggi che conoscevo solo nelle produzioni di un passato già remoto. Pulsazioni e relazioni che si scambiano di posto, rapporti di melodia e rumore, il canto del rumore, la malinconia sul suo scranno in fondo all’oceano che guida un viaggio che ora mi tocca compiere a ritroso. Per ricordare. Per farmi stringere nella morsa della rievocazione di quello che ho legato ai Verdena. Fa male, ma so che faceva già male allora. Le cose non cambiano, pur cambiando. Lo dicevo. Lo ripeto. Basta poi una frase per incidere il cuore e per me è “Ma ancora è così normale il male che vorrei per te” inchiodata a quel riff sanguinoso, che ancora mi fa gridare. Grido con loro. Grido da solo. Grido.

Non me ne resi conto ma “Solo un grande sasso” è generazionale, come i grandi album generazionali, quelli che attecchiscono alla pelle delle persone mentre crescono. La mia generazione, qui, ha questo, un tesoro emerso dai flutti di un Paese irreale. Un dipinto che non stinge ma che, anzi, prende i colori del tempo trascorso inesorabile, implacabile. Ma è ancora qui e riluce ancora di quella bellezza che non sfiorirà mai.

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