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“Electro-shock Blues”, il capolavoro degli Eels

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Esistono tanti dischi meravigliosi. Di questi, pochi rappresentano vere e proprie opere d’arte, ancora meno sono i capolavori. Il passaggio tra la “semplice” bellezza e l’assoluto valore artistico è dato dalla presenza o meno della componente tempo: un album in cima alla lista di un genere o di un intero movimento musicale è replicabile in ogni epoca con gli stessi risultati. Replicabile in senso assoluto, vale a dire che si possono riproporre – mantenendo intatta la freschezza dell’impianto – tematiche, stile e sonorità.

Come vi sentireste se in breve tempo morissero tutti i componenti della vostra famiglia? Quale sarebbe la sensazione nel comprendere che siete gli unici superstiti? Domande universali che scaturiscono da temi universali. Nella testa di Mark Oliver Everett, in arte E, deus ex machina del progetto Eels, si formano questi quesiti e lui cerca di darne una risposta in musica, l’unico motore della sua vita. Quella risposta si chiama “Electro-shock Blues” e sì, ha tutte le caratteristiche per essere il suo capolavoro, in un tripudio di pop-rock di stampo cantautorale.

La mamma di Mark è malata terminale di cancro, la radioterapia produce più danni che benefici. Nella fase più critica, sua sorella Elizabeth si suicida. Anche lei soffriva, ma di un male oscuro, immateriale, uno di quei disturbi che ingabbiano il cervello e che i medici, non sapendo che pesci prendere, tentano di sedare con una terapia basata sull’elettroconvulsione. Una dopo l’altra, quelle scariche nel cervello fanno sì che pian piano Elizabeth si spenga, fino a decidere lei stessa di porre fine alla sua vita. Come accaduto con suo padre, il noto fisico Hugh Everett III, è Mark a ritrovare il corpo senza vita di sua sorella.

È riversa in bagno, stringe nelle mani il suo diario. Istintivamente Mark lo raccoglie e legge una frase a caso: “Kitty mi lecca la guancia. Potrei provare a svegliarmi, ma non è facile svegliarsi quando vuoi morire”. Più in basso legge: “My name is Elizabeth, my life is shit and piss”.

È così che inizia “Electro-shock Blues”, con un brano inequivocabile per linguaggio e titolo: Elizabeth on the bathroom floor. Tutto è dannatamente reale, raccontato dietro un velo di sottile ironia, con metafore, giochi letterali, ma senza alcun giro di parole. L’immagine successiva (Going to your funeral, Pt. 1) è l’ineludibile contrapposizione che si vive ad un funerale. Ci avete mai pensato? Intimo e pubblico si fondono in modo perfetto nelle poche ore di quella giornata commemorativa. E’ finito tutto, pensa Mark con le spalle strette nel suo angolino, ma allo stesso tempo uno stuolo di sconosciuti si appropria della scena per depositare un fiore su quella scatolina. Dentro c’è sabbia, come canta lo stesso Mark, ed è strano pensare che quella sabbia un tempo fosse un essere umano.

Poi anche la mamma di Mark muore, in modo certamente meno imprevedibile ma con Cancer For The Cure lui stesso ci ricorda che, in fondo, la cosa di cui avere davvero paura è un attacco di cuore. Dopo aver realizzato di essere rimasto l’unico componente in vita della sua famiglia, Mr. E torna a parlare dei tormenti di Elizabeth: anche qui il titolo – My Descent Into Madness – non lascia spazio a interpretazioni. In quel rehab la ragazza vive su un sedile a tre velocità (3 Speed). In quel posto tutto è strano: dai pensieri che devastano il povero cervello di una giovane donna alle persone che se ne prendono cura. Nessuno vuole dirle cosa accade, dicono che va tutto bene. Nel frattempo, lei mangia delizioso Hospital Food. Mark assiste sua sorella mentre i medici le praticano le scariche: pensa che sia qualcosa di talmente intimo e tranciante da somigliare a un blues. E’ così che nasce il titolo del pezzo che dà nome al disco.

Dopo la morte, la salma di Elizabeth viene cremata. Mark cerca di interpretare i pensieri di un’anima il cui corpo sta per essere bruciato per sempre: “Non chiudete gli occhi mentre mi trasformo in polvere, pensate al fatto che mi state vedendo per l’ultima volta”. Stavolta il titolo, Efil’s God, è un gioco di parole, una contrapposizione in tipico stile Everett: è la lettura al contrario di Dog’s Life, un vecchio pezzo gli Eels.

Dopo la strumentale seconda parte di Going To Your Funeral, è tempo di un’altra domanda semplice quanto sconvolgente. Quante volte ci è capitato di desiderare un ultimo incontro con uno dei nostri cari defunti? In qualche maniera ciò capita a Mark, che lo racconta in Last Stop: This Town. Il funerale di Elizabeth si tiene alle Hawaii, così lui parte dalla sua casa di Echo Park, un quartiere di Los Angeles. La proprietaria, la signora Francis, al suo ritorno lo aspetta sull’uscio e gli dice: “Non so se gliel’ho mai detto, ma a volte ho delle apparizioni”. Non avendo la minima idea sul perché di quell’affermazione, Mark resta in silenzio mentre lei continua: “Ho visto lo spirito di una giovane donna entrare in casa sua mentre lei era via”. Mark si spaventa, perché andando via non ha detto nulla circa il motivo del suo viaggio, di fatto Francis non sa della morte di Elizabeth. Tuttavia, pensandoci bene, Mark si rende conto di essere connesso a sua sorella, in un legame che la signora Francis inconsapevolmente ammette andare oltre la morte. E allora perché non scrivere qualcosa? E’ confortante per lui pensare che lei sia passata di lì un’ultima volta, prima di volare via definitivamente.

Un’altra pausa dal racconto, Mark se la prende con Baby Genius, pezzo dichiaratamente dedicato al padre Hugh, fisico di fama mondiale, considerato uno dei tanti eredi di Planck e Einstein nell’interpretazione della meccanica quantistica. In particolare, Everett figura tra coloro che hanno fornito una delle teorie alternative alla celebre interpretazione di Copenaghen. Il suo studio, datato 1957, teorizza la divisione della storia dell’universo in molti mondi distinti, per questo assume il nome di “Interpretazione a molti mondi”.

A proposito di immaginazione, alla base del racconto sull’anima di Elizabeth che torna a far visita a Mark, Climbing To The Moon è il racconto di una lettera scritta dalla stessa ragazza e custodita da un’infermiera, che non ha mai smesso di farle i complimenti per la sua calligrafia. Elizabeth immagina la sua terapia come un viaggio interstellare, il corridoio è una scala e la stanza dove si trova il macchinario è la luna. Sente di essere vicina alla fine, così alza gli occhi e vede il cielo, mentre la terra che resta ferma sotto di lei è solo merda. Una volta morta Elizabeth, a sua volta Mark guarda la volta celeste e ci vede una fattoria piena di formiche (Ant Farm), le anime vaganti che passeggiano su e giù in quell’enorme e buia distesa. Tra quelle formiche non riesce a scorgere lei, ma sa che è la più bella di tutte.

Poi Mark ripensa alla morte della mamma (Dead Of Winter), cercando di ripercorrere con la mente gli ultimi giorni, rassegnato all’idea di respirare aria fredda e sterile al buio di una corsia d’ospedale. In quei momenti, i medici disegnavano sul corpo martoriato della povera donna i puntini che indicavano dove indirizzare i raggi della radioterapia. Tratti di pennarelli magici, seguiti da radiazioni e da un dolore alla lingua, che pian piano scendeva giù per la gola. I medici promettevano, ma mentivano: dicevano che la mamma sarebbe stata bene, che non avrebbe sentito dolore, ma non fu mai così. Ogni tanto spuntava fuori un orologio, regalato qualche anno prima proprio da sua madre. Lo guardava scandire il tempo, consapevole che mancasse sempre meno alla fine, vane erano le richieste di rimandare indietro quelle lancette. L’effetto delle terapie, così devastanti ma unica ancora di salvezza, ogni volta finiva, The Medication Is Wearing Off, e ogni volta lui aveva la tragica sensazione che durassero sempre meno.

Il giorno del funerale della mamma, sul viale di casa Mark pensa di nuovo che sia tutto finito. Inaspettatamente però (P.S. You Rock My World), gli vengono in mente tante cose buffe accadute negli ultimi mesi, tra cui la discussione avuta con un’anziana signora a un distributore di benzina, che gli suonava il clacson pensando fosse l’inserviente della pompa. Allora riparte – e si conclude – il gioco delle contrapposizioni: di ritorno da due esperienze di morte, Mark pensa che non ci sia cosa migliore che tornare a vivere.

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