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Back In Time

“Screamadelica”, il disco che consegnò i Primal Scream alla storia della musica compie 30 anni

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Se guardiamo indietro oggi, a mente fredda e lucida, è difficile negare che il 1991 sia stato semplicemente uno degli anni più importanti della storia (almeno recente) della musica. Una tale concentrazione di dischi divenuti musicalmente o (anche solo) culturalmente seminali, forse, non si era mai vista prima. Di sicuro, ad oggi, non ha mai conosciuto repliche.

A marzo viene pubblicato l’ultimo lavoro degli Slint, “Spiderland“, un disco fondamentale per la storia successiva del post – lo stesso dicasi per “Laughing Stock” dei Talk Talk, antecedente di un mesetto circa – e del math rock; ad aprile arrivano gli Orb di “The Orb’s Adventures Beyond the Ultraworld” a rendere popolare l’ambient house e ad anticipare ciò che evolverà e culminerà nel movimento rave britannico, influenzando i successivi Underworld, Chemical Brothers, Fatboy Slim e quant’altro; e i Massive Attack di “Blue Lines“, considerato, a posteriori, il primo album trip hop della storia della musica; c’è il grunge, i cui primi vagiti appaiono addirittura deboli di fronte al poker d’assi costituito da “Ten” dei Pearl Jam, dall’omonimo dei Temple of the Dog, da “Nevermind” dei Nirvana e da “Badmotorfinger” dei Soundgarden; c’è lo shoegaze, pronto ad autodefinirsi e autocelebrarsi in un intervallo di tempo relativamente breve, che però trova in “Loveless” dei My Bloody Valentine una sorta di spartiacque, e, volendo, c’è anche una nuova ondata di pop punk pronta ad esplodere.

Il 1991 è anche l’anno dei Public Enemy, dei Red Hot Chili Peppers e via discorrendo, mentre, a Manchester, c’è un mondo in fibrillazione: cambiano le droghe, con LSD e MDMA a dominare il mercato e le serate, ma muta anche la geografia del divertimento notturno, con l’Haçienda a fare da stella polare. In una sola parola: Madchester. Ma Madchester definisce un modo, prima ancora che un genere musicale. E a incarnarne perfettamente lo spirito, in quel periodo, sono i Primal Scream, da Glasgow, Scozia, con un album rivoluzionario e seminale, la cui scia imperitura è limpida e visibile ancora oggi: “Screamadelica” vede la luce il 23 settembre.

Nel 1991, Bobby Gillespie – che nel curriculum vanta già una collaborazione coi fratelli Reid per “Psychocandy” – e soci hanno già confezionato “Sonic Flower Groove e “Primal Scream“: il pop rock psichedelico influenzato dai Sixties offre spunti senz’altro interessanti, ma non appare ancora perfettamente compiuto. Fra i due dischi, Robert Young e Andrew Innes hanno sostituito Jim Beattie, fuoriuscito dalla band per inseguire un altro progetto artistico. Poco prima di “Screamadelica“, inoltre, i Primal Scream passano a Creation, l’etichetta del visionario Alan McGee, e incontrano Andrew Weatherall, dj londinese e figura campale per il loro futuro capolavoro. Anche grazie a lui, con quel terzo disco, la rivoluzione può diventare reale, materia, musica: è quasi come sintetizzare tutte le pulsioni, le passioni, i suoni e gli stati mentali di una serata mancuniana, senza smantellare completamente i Primal Scream dei primi due lavori.

Con “Screamadelica“, i Primal Scream ristrutturano parte di quell’impianto rock psichedelico un po’ figlio di Beatles, Byrds, Rolling Stones e Beach Boys con trame elettroniche, ma, soprattutto, si calano nel presente – e, se possibile, anche nel futuro – scegliendo di ricamare il tutto con cascate di acid house, un genere che in quegli anni ha rapidamente attraversato l’Atlantico e che, partito da Chicago, ha contagiato e travolto anche tutta la Terra d’Albione. Mai prima di “Screamadelica” il rock era stato sedotto e conquistato dalla dance – di sicuro non in quella misura –, ma grande merito è anche della produzione di Andrew Weatherall, di Hugo Nicholson, degli Orb e di Jimmy Miller, in passato produttore dei Rolling Stones.

Non tutti producono tutti i pezzi. Miller, per esempio, tocca solo l’opener Movin’ On Up e Damaged: non stupisce, allora, che il blues rock della prima ricordi Sympathy for the Devil, con tanto di percussioni ipnotiche sullo sfondo e un coro gospel finale stagliato sulle chitarre dilatate e distorte. La seconda, invece, assume più i contorni di una ballad. Ma è con Slip Inside This House che qualcosa di completamente nuovo comincia davvero a emergere: la psichedelia del passato incontra l’house del presente, la drum machine non concede pause, il basso fa il resto. La rivoluzione è ufficialmente in atto.

E prosegue, incessante, scardinando allo stesso tempo con grande vigore e con estrema semplicità tutte le certezze dei puristi del rock. Don’t Fight It, Feel It vede Denise Johnson alla voce: il suo cantato soul, però, flirta con un sound house danzereccio e in discoteca si esulta. Higher Than The Sun è l’incontro fra i New Order e un trip hop che non è stato ancora codificato dalla stampa di settore, Inner Flight è ancora qualcosa d’altro rispetto a quanto già ascoltato: un viaggio interiore, un volo appunto, sospinto da un’elettronica morbida, vagamente inquieta, certamente molto acida.

Ma è con i due pezzi successivi che i Primal Scream vanno addirittura oltre: prima Come Together, il cui sottotesto dub è cavalcato da ritmi esotici, cresce progressivamente in velocità, fino all’esplosione di un coro rarefatto, trascinato da un piano mellifluo, autenticamente irresistibile; poi Loaded, il crossover definitivo, dove tutto confluisce, in un’orgia musicale che ha del clamoroso e che rappresenta un’impresa anche per Weatherall in fase di produzione. Il pezzo parte con la voce di Peter Fonda nel film The Wild Angels e si apre in un groove psichedelico in cui ci sono le linee di basso e di piano di I’m Losing More Than I’ll Ever Have, estratta dal precedente disco dei Primal Scream, un sample vocale di I Don’t Wanna Lose Your Love degli Emotions, un loop di batteria proveniente da un remix di What I Am di Edie Brickell e un campionamento di Gillespie che canta Terraplane Blues di Robert Johnson. Il tutto mentre le chitarre si distorcono sempre più e i cori gospel si poggiano sui fiati.

Dopo Damaged, c’è il viaggio ancora psichedelico guidato dal sax di I’m Coming Down e una reprise di Higher Than The Sun con Jah Wobble ospite: stavolta l’elemento dub domina davvero – non a caso, il nome completo del brano è Higher Than The Sun (A Dub Symphony In Two Parts) – e l’effetto, per oltre sette minuti, è incredibilmente lisergico. La chiusura, affidata a Shine Like Stars, sarebbe dolce e melodica, se non ci fosse un carillon a rendere tutto un po’ più acido.

Screamadelica“, da solo, basta per consegnare i Primal Scream alla storia della musica. Pur non essendo l’unico capolavoro degli scozzesi – protagonisti anche di qualche scivolone, a onor del vero –, il disco di cui celebriamo il trentennale è un’opera superiore, che trascende il tempo e persino la sua stessa incalcolabile influenza su una sterminata serie di artisti delle più diverse estrazioni in termini di genere: un miracolo tanto musicale e tecnico quanto storico e concettuale il cui valore, nel 1991 come trent’anni dopo, non è praticamente mai stato messo in discussione. E anche giustamente, perché a volte bisogna solo fermarsi e affermare, senza relativizzare: la musica non fa eccezione e “Screamadelica” ne è la prova.

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