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Back In Time

“Antics” degli Interpol, luci splendenti illuminano ancora NYC

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Conobbi casualmente gli Interpol. Una sera la programmazione televisiva non era di mio gradimento e con il più classico e speditissimo degli zapping, saltai da un canale all’altro, sino a Mtv, dove trasmettevano proprio un concerto della band.

Non ricordo la location, ma a presentare l’evento c’era una giovanissima Paola Maugeri; ricordo l’afflato dark di quell’esibizione e  nella mia testa riecheggiava con forza il parallelismo con il sound britannico post-punk di band come Joy Division, Television, altri complessi di quella corrente preponderante negli anni 80. Sin da subito credetti che anche loro fossero britannici, ma erroneamente ero caduto nella trappola. Perché dunque un gruppo americano suonava con uno stile d’oltre manica? I quesiti cominciarono a tamburellare la mia testa, diniegando la realtà alla quale assistevo.

Eureka! All’improvviso il pensiero si trasfigurò e riuscii a vedere tutto con chiarezza. Quelle chitarre erano piene e romantiche allo stesso tempo e, così come ogni singolo individuo, anche un gruppo musicale si permea delle esperienze vissute e delle cose viste nella propria epoca.

«Adorava New York. La idolatrava smisuratamente» No, è meglio «la mitizzava smisuratamente», ecco. «Per lui, in qualunque stagione, questa era ancora una città che esisteva in bianco e nero e pulsava dei grandi motivi di George Gershwin (…) No, aspetta, ci sono: «New York era la sua città, e lo sarebbe sempre stata».”(Woody Allen, Skyline Manhattan,1979)

Gli Interpol non si limitavano a riprendere accordi e idee: reinventavano, incrociavano, sperimentavano, con un’accortezza filologica che diventava inclinazione naturale. All’inizio del terzo millennio erano in parecchi a guardare indietro alle chitarre e al post-punk: Editors, Franz Ferdinand, The National. Ma nessuno di loro è da considerare un esperimento così riuscito; nessuna crisi identitaria, solo la necessità di rinnovare una scena satura rispolverando modernamente qualcosa di passato, forse anche non più di moda. Gli Interpol erano diversi.

Luci splendenti illuminano (ancora) NYC, inondando con fasci di neon quelli che appariranno, al trafelato passante della più sgargiante Avenue di Manhattan, poco più che dei ferrivecchi. I legittimi proprietari assegnano alle loro luccicanti chincaglierie in fragoroso chiaroscuro l’appellativo di “Antics“.

Il cantante Paul Banks ha indicato “Antics” come il suo album preferito della band, dicendo: “Ho messo davvero molto sangue, sudore e lacrime su questo disco” e che “sembrava una ricerca molto retta “. Banks ha anche affermato che la loro fiducia nella qualità dell’album ha agito come “il perfetto antidoto a quel crollo del secondo anno” e il gruppo ha aggirato la pressione ed è stato in grado di rituffarsi subito.

Il disco è incentrato su di un romanticismo espresso mai banalmente ma con testi raffinati e poetici. È un album corposo, dove si perdono quasi subito i toni dimessi e soffusi del lavoro precedente, per fare spazio a riff più accentuati e accordi potenti (vedi Not Even Jail o Evil), stilisticamente omogeneo, che presenta nel finale una nuova versione di una vecchia conoscenza dei fan, vale a dire quella A Time To Be So Small presente già nel “Precipitate EP” di tre anni prima.

I submit my incentive is romance
I watched the pole dance of the stars
We rejoice because the hurting is so painless
From the distance of passing cars
But I am married to your charms and grace
I just go crazy like the good old days
You make me want to pick up a guitar
And celebrate the myriad ways that I love you

– Slow Hands

Per Paul Banks, Slow Hands è un concetto di relazione. “Nonostante questo sia il primo singolo, non lo vedo come una nostra dichiarazione d’intenti. Non siamo il tipo di band che cerca il singolo d’oro e poi vende sei canzoni di merda alla gente dietro una buona. Ogni canzone è bella quanto Slow Hands nel disco”.

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