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“Urban Hymns”, l’enciclopedia esistenziale dei Verve

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Il 1997 è, musicalmente parlando, una delle annate più emozionanti in assoluto, caratterizzato da dolorosi addii, maestose consacrazioni, cambi di programma improvvisi e piacevoli scoperte che non hanno mai trovato il successo che avrebbero meritato. Sì, perché, rimanendo anche solo all’ombra del Big Ben, il ’97 fu l’anno della clamorosa disfatta dei Genesis, orfani dell’eclettico Collins e con Ray Wilson al microfono, dell’ispirazione alle stelle dei Radiohead di “OK Computer”, dell’inversione di marcia dei Blur, del debutto, ancor oggi conosciuto da pochi appassionati, dei Mansun e, infine, ma solo per non dilungarmi, del canto del cigno del “Britpop”, guidato dal terzo disco dei Gallagher “Be Here Now” e dagli acclamatissimi “Inni Urbani” dei Verve.

Si dice che per lavorare al meglio, specialmente se in gruppo, siano necessarie cooperazione e un’atmosfera rilassata ma, chiaramente, non è il caso della band di Wigan che, tra continui litigi e un regolare abuso di droghe, in quel periodo, ha già affrontato uno scioglimento, avvenuto nell’anno successivo alla pubblicazione del loro secondo album in studio “A Northern Soul” (1995). Nell’autunno dello stesso anno, con gli attriti precedenti apparentemente risolti o quantomeno smussati, Ashcroft e soci avviano la scrittura di quello che sarà il loro terzo album ufficiale, in pieno periodo “spirituale” e, quindi, con il consueto consumo di droghe associatovi: in questo clima, neanche troppo particolare, il 29 settembre del 1997 esce Urban Hymns, trainato da singoli, simili a veri e propri inni generazionali, come Bitter Sweet Symphony e The Drugs Don’t Work, che permettono agli inglesi di raggiungere il successo in patria e non solo, consacrandosi, a pieno titolo, come portavoce del movimento “Britpop”.

Il singolo apripista, però, si trasformò in una sinfonia più amara che dolce quando Mick Jagger e Keith Richards chiesero di essere inseriti fra gli autori del brano, dal momento che quest’ultimo fu accusato di aver campionato un riff d’archi proveniente dalla versione orchestrale di The Last Time, un brano, appunto, degli Stones. Com’è noto, Jagger e compagni, avrebbero rinunciato solo nel 2019 ai diritti della canzone, ma al di là delle controversie legali cosa ci rimane oggi dell’ultima fatica veramente brillante dei Verve?

A Timeless Masterpiece, per dirla all’inglese, dove Ashcroft canta, in maniera piuttosto schietta, la realtà che lo circonda e che, in un certo senso, accomuna tutti noi: l’universalità di questo disco, della sua scrittura, del suo messaggio, a cui nessuno può sfuggire, è uno dei tratti distintivi che immediatamente risaltano all’orecchio dell’ascoltatore. In questi inni di strada, perfetta sintesi di cemento e poesia, c’è spazio per tutto, per la fortuna, la droga, la speranza, il dolore, l’amore, la vita e la morte, concentrate in una sorta di enciclopedia dell’esistenza in salsa alternative. Un mondo perfetto non può esistere ed è giusto che si sappia, la realtà è tutt’altro, il “mondo dei grandi” è spietato e crudele ma non è detto che non possa cambiare perché, se è vero che dove c’è vita, c’è speranza e se è altrettanto vero che quest’ultima sia dura a morire, allora il vagito di un neonato, come quello di Deep Freeze a chiudere l’opera, non può far altro che riaccendere in ognuno di noi una spassionata fiducia nel prossimo e nel futuro. 

Oggi ci ritroviamo a soffiare sulle 24 candeline di questo classico immortale che, non a caso, riesce ancora a suonarci come attuale perché, è risaputo, il tempo non può nulla contro ciò che gode di vita eterna. Vorrei che questo disco riuscisse a insegnare a tutti noi le stesse cose che è riuscito ad insegnare a me al primo approccio e, cioè, che la felicità è da ricercare in noi stessi prima ancora che fuori dalle, più o meno sicure, mura domestiche; che l’amore, se è quel che cerchiamo, esiste ed è intorno a noi, basterebbe solo guardarsi intorno con più attenzione per accorgersene e che, nonostante tutto, bisogna sempre tenere gli occhi puntati sulla propria “farfalla” personale perché, prima o poi, arriverà il momento in cui la acchiapperemo.

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