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Back In Time

“Gentlemen”: il film degli Afghan Whigs sulle tentazioni che vengono dal basso

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Signore, vi racconto di me / Ho il cazzo al posto del cervello / E il mio cervello vi venderà il mio culo / Se sto bene, ma poi mi accorgo di essere bloccato / Lei vuole amare e io voglio ancora scopare

– Be Sweet

È questione dibattuta tra i fan della band se siamo di fronte al miglior album degli Afghan Whigs o se la palma vada a “Black Love” o “Congregation”. Pochi però dubitano sul fatto che l’unità concettuale e l’intensità lirica di “Gentlemen” rimangano imbattute. “Quando l’amore è assente, c’è solitudine, dolore, disperazione. E allora tocca a me” – disse Greg Dulli almeno una volta sul palco. Che poi l’amore sia assente, non per mancanza d’offerta ma per incapacità a riceverlo, è il vero tema del disco, il vero dramma del protagonista. Tossicodipendente (“apri l’armadietto / prenderò qualunque cosa tu abbia”), oltre che sex-addict e abusatore (“se infliggo il dolore / allora piccola solo io te lo posso alleviare”). Una relazione tossica quella descritta in “Gentlemen”. Cominciando dalla copertina, ispirata a una fotografia esposta al Museo MoMA di New York, che rappresenta l’alienazione di coppia, con un bambino e una bambina fisicamente vicini su un letto sfatto ma con sguardi che rivelano intenzioni lontane. Un’immagine forte, molto criticata da alcuni a cui parve pericolosamente vicina al pedo porno e che, secondo gli Afghan Whigs, vuole far riflettere su come i bambini replicano da subito, nelle relazioni di coppia, i pattern tossici appresi dai genitori.

Quanto ci sia di autobiografico in questa storia non è chiaro e non aiutano le dichiarazioni contraddittorie dello stesso Dulli. Sicuramente c’era una tale Kris, la perdita della quale potrebbe aver ispirato la storia. E sicuramente l’aneddoto da lui stesso raccontato secondo cui molte parti vocali del disco vennero registrate in una sola notte mentre sniffava cocaina, nel tentativo d’impressionare una donna, contribuisce al mito oscuro del disco. E’ anche certo che il front-man della band abbia una passione per il cinema e che il favoloso contratto con cui l’etichetta Elektra li aveva arruolati, per la realizzazione di “Gentlemen”, prevedeva addirittura la realizzazione di un film. Il progetto continuò ad aleggiare tra questo disco e il successivo, ma non andò mai in porto e ci dobbiamo “accontentare” delle qualità cinematiche della scrittura di Dulli. Come parte del proprio sforzo economico, la Elektra portò persino la band negli storici Ardent Studios di Memphis, già frequentati da Bob Dylan e i Led Zeppelin. 

Dopo le buone premesse di “Congregation”, gli Afghan Whigs sembravano destinati a essere la prossima “big thing” del rock alternativo. Passato il tentativo fallimentare di “Up in It” di farli sembrare un gruppo grunge, di cui abbiamo scritto nel nostro Back in Time di 6 mesi fa, “Congregation” aveva finalmente rivelato il loro vero suono, a metà tra il classic rock e l’R&B, tra i Rolling Stones e i Temptation, emozionando l’industria discografica. Ma a quanto pare, a parte Prince, il mercato non aveva spazio per tale contaminazione e “Gentlemen” non s’impose mai davvero nelle classifiche. Nè fu sufficiente riempire il video della title-track di strafiche e sensualità torbida a buon mercato.

28 anni dopo, di “Gentlemen” rimane tuttavia una potenza sonora e poetica che non si rintraccia spesso nella storia della musica rock con altrettanta brillantezza. I riff di chitarra sparati all’unisono da Dulli e McCollum, gli assoli graffianti di quest’ultimo alla Joe Perry, il basso molto “Motown” di Curley, la batteria funky che tormenta il rullante e massacra i piatti di Earle, sono elementi distintivi che messi insieme rendono perfettamente originale il sound del disco.

Il disco comincia epico con l’atmosfera da film di If I Were Going che introduce sommessamente alcune frasi, musicali e poetiche, che torneranno: “È nel nostro cuore, è nelle nostre teste / E’ nel nostro amore, piccola, è nel nostro letto”. Sarà poi la batteria a lanciare il riff duro e funky di Gentlemen, singolo che anticipò l’album. Tagliato con l’accetta è invece il riff di Be Sweet, su una base ritmica sincopata. Debonair è il secondo singolo, caratterizzato da un muro di chitarre molto hard e da una sezione ritmica che parte pesante con l’handclapping e poi prosegue sincopata. Questo trittico di tracce esemplifica bene il tentativo dichiarato di Dulli di seguire l’esempio Motown e mischiare ritmi vivaci con testi tristi, più che mai tristi e oscuri: “Quanto in fondo posso andare? Quanto si può essere cupi?”, si chiedeva.

Con When We Two Parted il ritmo rallenta in una sorta di blues psichedelico, ma la storia s’incupisce ulteriormente: “Bene, posso travestirmi da assassino di nuovo / E’ la mia parte favorita, ha personalità”. Con Fountain and Fairfax si torna al rock veloce, funky e hard e ai muri di chitarre. Su What Jail Is Like s’impone invece il pianoforte: qui, forse Dulli strafà un pò con le urla alla lunga, sarà la cocaina, ma il pathos si perde un pò mentre canta: “E’ così che deve essere stare in carcere”. My Curse, una ballad vagamente folk, ci dà la versione dei fatti dell’altra metà della coppia. La voce femminile è di Marcy Mays degli Scrawl: “Schiava è una parola / Che solo uso per descrivere / Il modo speciale in cui mi fai sentire”. McCollum qui si lancia in un solo pulito che suona come nella migliore tradizione della musica Americana. Now You Know è un’altra scarica di adrenalina chitarristica, sostenuta dal pianoforte.

Se è vero che qui Dulli va in trance agonistica e esagera di nuovo con le urla, arriva poi a seguire la cover di un pezzo soul del 1970, I Keep Coming Back (Tyrone Davis), che riequilibra il tutto, pone splendidamente la ciliegina sulla torta e chiude di fatto il concept del disco: “Voglio lasciarti / Ma non ci riesco proprio / E continuo a tornare per un altro pò del tuo amore”. La cover è abbastanza fedele musicalmente all’originale; l’amore per quel soul a cavallo tra i ’60 e i ’70 risuona chiaro; ma il tutto è incattivito, dotato di una disperazione che va ben oltre il semplice dramma di amore e riflette il dramma umano di chi si ostina in relazioni e comportamenti autolesionisti. Tanta drammaticità viene ben disegnata dall’introduzione e dalla coda affidate al basso e al mellotron. Il disco si chiude con un bel strumentale dalla grande atmosfera e dai brillanti arrangiamenti, Brother Woodrow, in cui il violoncello dialoga con le chitarre e il pianoforte, consentendo un’ideale riposo all’ugola sfiancata da Dulli nel resto del disco, nonché alla nostra attenzione catturata dalla trama del film.

“Gentlemen” non è un disco per tutti e non stupisce che non abbia “sfondato” in classifica. Ma è sicuramente un disco che resterà ancora a lungo nell’elenco di quelli da “ascoltare prima di morire”, con il rischio che se ti prende dentro – se ti fa torcere le budella con i suoi riff hard e i suoi ritmi soul, se ti strega con la sua sceneggiatura sulla tossicità di certe relazioni – rischi di finire male. Finché non sei disposto a confrontarti con certe parti oscure che tutti abbiamo e che agli Afghan Whigs piaceva da matti evocare.

La tentazione non viene dall’inferno / Ma dal basso

– My Curse

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