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Jerusalem In My Heart – Qalaq

2021 - Constellation
avantgarde

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Tracklist

LATO A:
1. Abyad Barraq (w/ Greg Fox)
2. Sa’at (w/ Alexei Perry Cox)
3. Istashraqtaq (w/ the city of Beirut)
4. Tanto (w/ Lucrecia Dalt)
5. ‘Ana Lisan Wahad (w/ Farida Amadou & Pierre-Guy Blanchard)

LATO B:
1. Qalaq 1 (w/ Alanis Obomsawin & Diana Combo)
2. Qalaq 2 (w/ Roger Tellier Craig)
3. Qalaq 3 (w/ Moor Mother)
4. Qalaq 4 (w/ Rabih Beaini)
5. Qalaq 5 (w/ Oiseaux Tempête)
6. Qalaq 6 (w/ VÍZ [Réka Csiszér])
7. Qalaq 7 (w/ Tim Hecker)
8. Qalaq 9 (w/ Mayss, Mazen Kerbaj, Sharif Sehnaoui & Raed Yassin)
 


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Quando un disco diventa un’opera di magistrale descrizione emotivo/politica? Quando un artista riesce a non tradire mai la sua dedizione all’avanguardia, riuscendo a districarsi all’interno della propria arte senza snaturarla, tenendosi al di fuori del mondo così com’è oggi, seppur raccontandone le complicate trame?

Ancora una volta il progetto Jerusalem In My Heart è tradizione (uomo) e futurismo (macchina) che si fondono in un unico soggetto. Un Io Narrativo che si fa Paese, il Libano, tra le cui radici profonde si trovano quelle della famiglia di Radwan Ghazi Moumneh, e la Storia diventa la sua storia, quella di “Qalaq”, quella di uno stato in cui la violenza non fa che crescere, ma che non è solo “sua”, è specchio di un mondo che non solo negli ultimi due terribili anni ha saggiato l’abisso, lo ha coltivato con una dedizione che alla costruzione non si è mai dedicata. Quasi ne desiderasse il totale decadimento, con l’Occidente che non fa che ignorare se stesso e l’Oriente, soprattutto quello Vicino, che noi italiani dovremmo conoscere bene, dato che per la lotta all’egemonia del Mediterraneo abbiamo lasciato solchi e ferite che ancora si ripercuoto ma che spesso, come tante altre cose, dimentichiamo.

Quando un disco è importante? “Qalaq” è “solo” uno dei cinque importanti che JIMH ha composto e registrato, ed è proprio il quinto ad avere in sé quel potere che li racchiude tutti. L’irrequietezza di Moumneh, la sua “profonda preoccupazione” con cui battezza quest’opera, non è solo udibile, è anche visibile, e si mostra attraverso occhi e mente dell’artista visuale Erin Weisgerber, la cui sensibilità entra in azione nel rendere organismo vivente e spiazzante le fotografie di Tony Elieh di Beirut nel video di Abyad Barraq, un’elegia in cui davvero la tradizione si fa stratificazione avviluppata nell’eterno, con i blast beat di Greg Fox (batterista che di avanguardia s’intende, avendo reso il burst beat dei Liturgy futuro del black metal statunitense) ad arroventare le melodie arabe e rarefatte che si stagliano all’orizzonte di una città che è rovine, che era vita e potrebbe esserlo ancora, ma vacilla ferita sull’orlo della Terra.

Il diamante nascosto in “Qalaq” è il suo essere diversificazione, mondi distanti che si concentrano in punti precisi, esplodono e si quietano, come se fossero dotati di vita propria. Il compositore canadese traccia un percorso e aspetta che i suoi corrispettivi facciano lo stesso, ragionando con mente, mani, voci e storie proprie quanto scritto in precedenza, e sulla via del ritorno tutto può cambiare, stabilendosi nei solchi dell’album. Tante le menti coinvolte, dall’ex-batterista di Hunter-Hunt Hendrix a Moor Mother passando per gli Oiseaux-Tempête e Tim Hecker e ancora oltre. Due lati, due dimensioni. Due facciate, un solo immenso palazzo che si sbriciola.

Il primo è un dedalo infinito, gli strumenti del folklore si squagliano nel passato per ricomporre i propri pezzi nel futuribile presente, elettronica umanoide, passaggio di consegne tra mani esangui, galassie melodiche e ricettacolo di follia e calma impassibile, confusione e un gomitolo di suoni che da minimali si fanno sfarzosi e poi a si ritirano come risacca all’ombra di guglie dorate sgretolate ma ancora bellissime tra le strade della città formicolante. Il secondo, con le tracce numerate a indicare un cammino a una sola direzione, si fanno crescendo inarrestabile, tribalismi che si schiantano su cavi scoperti e pericolosi, protagonisti assoluti di un deserto che sfarfalla nello spazio che si rannicchia in angoli di buio pesto, con la ritmacchina (citando Kodwo Eshun) che tace, e pare per sempre, lasciando che a suonare sia la pelle bruciante, le corde sfaldate dalla canicola, in un tunnel ipnagogico, delirio di compostezza e che infine deraglia in una parallassi cosmica.

Sgomento umano e bellezza che sovrasta, “Qalaq” è la risposta a tutte le domande che ho posto in corso d’opera. Quel quando che tende all’eterno in un momento storico in cui nulla è fatto per restare.

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