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Kowloon Walled City – Piecework

2021 - Neurot Recordings / Gilead Media
post hardcore

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Tracklist

1. Piecework
2. Utopian
3. Oxygen Tent
4. You Had A Plan
5. Splicing
6. When We Fall Through The Floor
7. Lampblack


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Finalmente riesco a recensire un disco di una band che conosco da diversi anni ma che è, come spesso ahimè mi ritrovo a scrivere, poco conosciuta soprattutto nel Vecchio Continente. Parlo della nuova fatica dei Kowloon Walled City, capitanati dal leader voce e chitarra Scott Evans, anche conosciuto nell’ambiente underground per essere un tecnico del suono abbastanza considerato, che ha prodotto oltre ai dischi della sua band, l’ultimo lavoro dei Thrice o in passato ha collaborato con i Town Portal, per fare degli esempi.

Il gruppo di Oakland – California, con un’esperienza ormai ben più che decennale, è uno di quegli esempi difficili da etichettare per via della natura variegata ed indefinita della loro musica; nati come uno dei tanti gruppi pestoni di sludge/post-hc, influenzati da Helmet ed Unsane, dal noise e con qualche divagazione math-rock, divenuto con il tempo elemento più presente nel loro sound, negli anni hanno per certi versi semplificato e smussato alcuni angoli della loro proposta musicale, snellendola e trovando un modello molto personale e riconoscibile di scrittura, compiendo indiscutibilmente una grande crescita artistica. Seguo la band californiana da quando fecero uscire nel 2012 “Container Ships”, disco coraggioso e di rottura rispetto alla loro discografia precedente, lavoro nel quale hanno iniziato a trovare un modo differente di scrivere i pezzi ed un percorso che li ha portati nel 2021, dopo un altro disco in mezzo, quindi probabilmente dopo una gestazione travagliata e a sei anni da “Grievances” appunto del 2015, a perfezionare quello che si sente oggi in “Piecework“.

L’album in questione dei Kowloon Walled City potrebbe perciò essere considerato come il raggiungimento di un obbiettivo, oltre ad essere un lavoro estremamente maturo artisticamente parlando. La formula sonora attuale o gli ingredienti della loro musica sono l’utilizzo di distorsioni per le chitarre tendenzialmente mai esagerate in termini di gain e quindi non portate a saturazione, qui non si tira il collo agli ampli, per usare un gergo caro ai musicisti. Sembra quasi che le parti di chitarra a tratti vogliano contribuire al lavoro della potente sezione ritmica: del resto lo stesso Evans ha dichiarato anni fa, a tal proposito, che vede il suo gruppo come una gigantesca sezione ritmica. Tuttavia, il suono delle stesse chitarre risulta essere molto tagliente e lacerante, quasi da band da catalogo Amphetamine Reptile o Touch and Go, e ciò fa sì che si evidenzino le dinamiche e che si distinguano molto bene i singoli strumenti , settati tutti, compreso il basso, su tonalità e frequenze per lo più “mediose”, aggiungendo chiarezza, nitidezza e pulizia di suono ad un genere troppo spesso caotico o confusionario. Scelte magari discutibili ma sicuramente inusuali per gli standard di un certo tipo di musica e che soprattutto dimostrano il carattere dei nostri.

A questo loro molto personale, tratto realmente distintivo, si aggiunge una lentezza di fonto tendente al doom, intesa come incedere dei brani e non come pesantezza di suono, ed un massiccio e sapiente utilizzo di pause e silenzi che fanno parte del caratteristico sound della band e che caricano di enfasi o smorzano i toni spesso inaspettatamente. Si nota poi una predisposizione crescente e progressiva negli anni verso la melodia, soprattutto in “Piecework“, ma con parsimonia, intendiamoci; sono sprazzi di luce centellinati con il contagocce, ben dosati e mixati con l’aggressività del sound proposto in generale, ed è forse questa contrapposizione di chiari e scuri la vera forza del quartetto, insieme ad una sensibilità quasi “emo-core” vecchio stile ed una vena sempre più malinconica (come l’artwork) vagamente slow-core a là Codeine sotto effetto di anabolizzanti, o travestiti da Isis, che rende il tutto altamente emozionale e teso unito a testi che parlano principalmente di morte o di resa nei confronti dell’invecchiamento. 

Per finire la ricetta sonora, abbiamo una voce mai invasiva ma monocorde, che contribuisce all’occorrenza a rendere le atmosfere ossessive alimentando quel gioco di alternanza fra chiari e scuri a cui facevo riferimento qualche riga prima. Tutte queste particolarità fanno in modo che i Kowloon Walled City abbiano trovato un sound riconoscibile e distintivo, un traguardo molto difficile da raggiungere.

Il disco, composto da sette brani un po’ più brevi e concisi rispetto al passato, scritti interamente da Scott Evans e dal chitarrista Jon Howell, vede un alleggerimento anche di contorsioni math, più presenti nei due dischi precedenti, a favore invece di strutture e trame sonore che virano verso un post-rock freddo, vigoroso e ragionato ma meno claustrofobico. L’unico difetto che si potrebbe trovare all’interno di “Piecework” è una certa ripetitività di strutture e trame che rende alcuni brani molto simili fra loro. 

I Kowloon Walled City con “Piecework” sono riusciti a fare un ulteriore passo in avanti nella loro personale ricerca musicale. A questo punto sono molto curioso di scoprire quale sarà il prossimo step della band californiana, chi vivrà vedrà si dice!

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