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“Hot Rats”, il film per le orecchie di Frank Zappa

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Nei primi tre anni della sua carriera, Frank Zappa incise sette album, di cui diversi colpi da maestro. Insieme alla sua prima formazione, le Mothers of Inventions, scrisse capolavori assoluti come “Freak Out!”, “Absolutely Free” e “Uncle Meat”, che con il senno di poi può essere considerato la punta di diamante dell’intera sua produzione. Proprio quest’ultimo disco, tuttavia, rappresenta il primo (di tanti) punti di rottura della carriera del rocker di Baltimora in quanto, a dispetto dell’enorme qualità presente sul vinile, il riscontro commerciale fu tutt’altro che lusinghiero.

Frank non era certo un musicista di nicchia, uno di quelli che scriveva per lui e se ne fregava dell’industria discografica. Al contrario: gli piaceva il successo, lo rincorreva lavorando come un matto e ce l’aveva a morte con chi non promuoveva a dovere la sua musica, reo di generare giorno dopo giorno una platea di ascoltatori pigri e svogliati. Dopo la plateale polemica rivolta all’esterno, Frank ne ha anche per le sue Mothers, a suo dire musicisti di livello troppo basso per gli standard che aveva in mente.

Frank non si da pace, in un 1969 che lo vede assoluto protagonista con il già citato Uncle Meat, ma anche con Mothermania, album tutto sommato dimenticabile. All’attività di musicista affianca quella di produttore, con la sua Straight Records che quell’anno sforna “Trout Mask Replica” di Captain Beefheart and His Magic Band, “Permanent Damage” delle “sue” GTOs, “Pretties For You” di Alice Cooper e “Blue Afternoon” dell’appena assoldato Tim Buckley. Proprio in quei mesi capisce che deve dare una svolta alla sua carriera, e quella svolta si chiama Hot Rats.

La nuova formazione, che da anche il titolo all’album, non è un gruppo in senso proprio, ma un progetto, un’idea da portare avanti. Al centro di tutto c’è Frank, che dalle Mothers salva il solo Ian Underwood. Tutto intorno ruotano una serie di musicisti, uno per ogni esigenza e tutti di altissimo livello: due violinisti (Don Harris, detto Sugarcane, e Jean-Luc Ponty), tre batteristi (John Guerin, Ralph Humphrey e Ron Selico) e due bassisti (Max Bennett e il quindicenne Shuggie Otis, figlio del leggendario Johnny). La ciliegina sulla torta, in un disco strumentale, è la voce del non-cantante Captain Beefheart.

D’altronde, la quantità non è mai stata un problema per Frank, che da vivo ha pubblicato una sessantina di album e altrettanti postumi ne hanno tirati fuori i suoi eredi, con materiale spesso e volentieri inedito. E a proposito di quantità, “Hot Rats” nella sua versione ufficiale dura 43 minuti, ma qualcuno (evidentemente dotato di enorme pazienza) ha messo insieme tutto il materiale inciso in vista della pubblicazione, una sorta di making of: è venuta fuori un’opera di quasi 7 ore e mezza.

“Hot Rats” però non deve essere una mera operazione di facciata. Per Frank è infatti finita la stagione delle stupid songs, canzonette che con apparente ma esplicita superficialità prendevano in giro tutti i fenomeni di moda del momento, a partire dal movimento hippie. E’ arrivato il momento di fare sul serio, iniziando ad esplorare i punti di connessione tra rock, jazz e musica classica.

La copertina del disco viene curata da Cal Schenkel, già collaboratore di Zappa e che in futuro ne diventerà praticamente l’alter ego grafico. Cal, che nel frattempo ha concepito anche il bizzarro work art di “Trout Mask Replica”,  decide di scattare una foto a infrarossi a Miss Christie mentre viene fuori da una piscina vuota. Groupie della prima ora delle Mothers of Invention, poi membro delle GTOs – la band di sole donne composta da ammiratrici di Frank – Christie era contemporaneamente amica di famiglia e baby sitter di Moon Unit, la primogenita di casa Zappa.

Estratto e messo sul piatto, il disco presenta da subito due caratteristiche ben definite: sezione ritmica semplice e il resto dato in pasto alla fantasia degli interpreti. Nei pochi minuti dell’iniziale Peaches In Regalia si alternano fin dai primi istanti tastiere, sax e chitarre: è solo l’inizio, ma già si perde il conto dei cambi di tonalità.

Arriva il momento di Willie The Pimp, un pezzo blues-rock impreziosito dalla voce del Capitano, che si assesta con tutta la sua grezza fermezza sull’ottava più bassa prima che Frank dia vita a uno dei suoi infiniti assoli. Poi ancora Beef, stavolta in alternanza con la Fender di Frank, poi quest’ultimo da solo, che va di delay e wah wah come se non ci fosse un domani, sorretto dalla solida batteria, che ogni tanto scivola in qualche fuori tempo.

L’ultima traccia del lato A è Son Of Mr. Green Genes, che parte con una sovrapposizione di chiatrra e fiati. Frank prende dunque il largo, in mezzo a tastiere quasi psichedeliche, bass line ai limiti dell’inverosimile e il solito, flemmatico incedere delle pelli, che però rispetto ai due pezzi precedenti si concedono talune piccole fughe.

Dal blues, al rock, al jazz, il lato B si apre con Little Umbrellas, che sfoggia fiati inaspettatamente delicati, elettronica affidata all’organo hammond e diversi virtuosismi di piano. L’elemento in più, stasvolta, è il flauto, che conferisce all’insieme un tocco di eleganza che non rappresenta certo una stonatura.

I 13 minuti di The Gumbo Variations iniziano con il sax che urla mentre la chitarra si scalda, poi partono i fiati ed è l’apoteosi, il caos, la saturazione degli ingranaggi in una contrapposizione perenne con una batteria appena sfiorata dalle bacchette. Verso il minuto 4 irrompe il violino, le cui corde sono subito pigiate fino a tirarle allo spasimo, aprendo così un nuovo capitolo poggiato sul delirio. Dopo un breve intermezzo di chitarra, che fa da cuscinetto sonoro a mo’ di separatore tra le arie di un’opera classica, il finale è ancora appannaggio del violino, che si scatena chiudendo con un’esplosione no wave.

La conclusiva It Must Be A Camel chiude il cerchio e torna al punto di partenza, con i continui cambi di tonalità, i fiati e una ritmica a tratti completamente alienata dal contesto.

Alice Cooper, scoperto e lanciato da Zappa, sosteneva senza tema di smentita che chiunque fosse considerato un genio, da Brian Wilson ai Beatles, considerava Frank IL genio. Non si contano gli artisti – a loro volta seminali – la cui carriera è stata segnata indelebilmente dal baffuto rocker di origini italiane. Parliamo di gente come i Primus e i Residents, oppure dei Deep Purple, che nella celeberrima Smoke On The Water raccontavano un aneddoto realmente vissuto a un concerto di Frank Zappa. O ancora gli stessi Fab Four, che una volta per bocca di Paul McCartney confessarono che “Sgt. Pepper” fu irrimediabilmente influenzata da “Freak Out!”.  

Tanti sono poi gli artisti che hanno incrociato il destino con lui, da George Duke a Steve Vai, passando per Adrian Belew, segno evidente che una delle componenti fondamentali dell’espressione musicale di Frank fosse la condivisione delle esperienze. Aderire ai suoi non-schemi, ancora oggi, significa aprire la mente in modo eterno e definitivo. D’altro canto, per usare una citazione autentica del maestro, se passi una vita noiosa ascoltando tuo padre, tua madre, tua sorella, il tuo prete o qualche tizio in tv che ti dice come devi farti gli affari tuoi, allora te lo meriti.

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