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Back In Time

Calibrare le parole: “Young Team” dei Mogwai

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‘Cause this music can put a human being in a trance like state
And deprive it for the sneaking feeling of existing
‘Cause music is bigger than words and wider than pictures
If someone said that Mogwai are the stars, I would not object
If the stars had the sound, it would sound like this

– Yes! I Am a Long Way from Home

Così una voce registrata di donna apre la prima traccia del primo album dei Mogwai, “Young Team“, ed è un manifesto, la loro precisa dichiarazione di poetica: se le stelle avessero un suono, suonerebbero così. Un viaggio astrale, tra il sonno e la veglia, canzoni-epifanie, tutto-corpo, una rappresentazione delle emozioni non mediata dalla ragione. Che i Mogwai non ricorrano molto alle parole è cosa nota, tuttavia quelle poche del quale fanno uso sono parole definitive:

Are you still into it? ’cause I’m still into it.
We haven’t had sore bits for about a fortnight.
Am I your only one? ‘Cause you’re still my only one.
But if you need more, I’ll just do it in some, right.
[…]
Will you miss me, when I’m gone?
Is there love there, even when I’m wrong?
Will you still kiss me, if you find out?
I will leave you and I will miss you.

– R U Still 2 It?

Un uomo chiede alla propria amata se prova ancora quello che prova lui. Il logoramento, l’allontanamento, e una serie di domande, inutili, delle quali si conoscono le risposte, la gelosia e l’autodistruzione, individuale e reciproca. È il post-rock: termine coniato da Simon Reynolds; uno dei movimenti musicali più innovativi e originali degli ultimi venti anni, e i Mogwai sono tra i gruppi più emblematici di una certa idea di post-rock, quella strumentale, caratterizzata dall’alternanza loud-quiet-loud, in una continua metamorfosi tra mogwai e gremlin. Strumentale, sì, ma con notevoli eccezioni: RU Still in 2 It, che presenta la voce di Aidan Moffat degli Arab Strap; registrazioni di vari individui che parlano al telefono (Tracy), che leggono (Yes! I Am a Long Way from Home), o discorsi sconclusionati (Katrien). Parole come strumenti, e musica a raccontare il continuum della realtà.

Photo: Steve Gulick

Così “Young Team“, incipit di una narrazione che ancora continua, che ancora ci trascina: registrato negli studi MCM di Glasgow, dove «c’erano anche sale prove, e potevi sentire la gente che cantava le canzoni degli Oasis proprio mentre cercavi di avere il tuo momento», la band ha speso poco più di 2.000 sterline «per un compressore o qualcosa del genere» e il disco è stato prodotto gratuitamente dal co-fondatore dell’etichetta Chemikal Underground, Paul Savage, anche membro dei The Delgados, in uno studio di proprietà dell’etichetta: «Un disastro totale. Eravamo giovani e ingenui e avevamo troppo poco tempo. Ci siamo seduti e mescolati intere notti e ci siamo sentiti male. Non ci siamo parlati. Quando è uscito l’album, volevamo solo dimenticare tutto. È il disco meno divertente che abbiamo fatto». Le parole di Stuart Braithwaite sui retroscena di uno dei più importanti album post-rock della storia sono stranianti.

Perché “Young Team” non sembra neanche un album composto, concretamente suonato, ma sembra un’opera che si è creata da sé, naturalmente fuoriuscita dalle cose, espressa dalle stelle una notte d’inverno, stelle mangiate dalle luci di una città, stelle a illuminare una campagna vuota, stelle soltanto immaginate in una stanza. Già a partire dalla copertina sembra tutto così oggettivo, umanamente obiettivo, una foto scattata e capovolta da Brendan O’Hare di una filiale della Fuji Bank a Shibuya, Tokyo, Giappone. Il logo “MYT” che si trova all’interno della copertina è stato creato da Adam Piggot e si basa su un marchio popolare utilizzato dalle giovani gang di Glasgow, in Scozia: uno “Young Team” è specifico di un’area: “Sighthill Young Team”, per esempio, Mogwai Young Team.

Registrare con spietata sincerità percorsi emotivi, che non per forza devono giungere a una risoluzione ma possono drammaticamente accumulare tensione e pathos soltanto per spegnersi e ricominciare da capo il processo nel brano successivo. Solo i grandi narratori riescono a suscitare effetti tattili col suono, a raccontare accennando, per privazioni, con impronte, segni, dove presenza e assenza si confondono, quelle quattro parole sussurrate e quel discorso sconosciuto ma accogliente che è la loro musica. Come alieni giunti per svelarci qualcosa su di noi che noi stessi non conosciamo, così li ricordo parlarmi da ragazzo, quando iniziava ad aggrovigliarsi la matassa dei pensieri per non risolversi più, mi dicevo: sì, anch’io sono molto lontano da casa.

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