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The Velvet Underground

The Velvet Underground

Scheda

USA - 2021 - Documentario
Durata: 110'
Regia: Todd Haynes

Erano gli anni ’60 a New York. Un ragazzo poco più che ventenne cresciuto a Brooklyn prima (città e palazzi) e a Long Island poi (villette e giardini), lavorava per la Pickwick Records, un’etichetta che era una fabbrica di “hit songs” a buon mercato. Il lavoro di Lou Reed consisteva nello scrivere tali canzonette e talvolta di suonarci; in genere inni R&B di maniera, buoni per le balere e le radio, che cavalcavano le mode nel tentativo di fare soldi. Fu presso la Pickwick, che Lou incontrò l’immigrato gallese John Cale, un musicista di formazione classico finito in America per seguire la sua attrazione per la sperimentazione musicale di La Monte Young, il pioniere del minimalismo e della drone music.

La scintilla magica scoccò tra i due e venne immortalata dapprima nel singolo The Ostrich, per lanciare il quale la Pickwick creò l’improbabile band “The Primitives”, con Lou e John dentro. La canzone, che fa la sua apparizione prepotente nel documentario “The Velvet Underground”, era un geniale pot-pourri. In parte uno scimmiottare le canzoni da ballo dell’epoca, a cui Lou aggiunse testi incongrui (“metti la testa sul pavimento e chiedi a qualcuno di camminarci sopra”). Il risultato  sembrava solo un divertimento per ballarci sopra, muovendosi come uno struzzo (“ostrich” in inglese), seguendo le mosse che la sorella di Lou ci mostra nel documentario. Tuttavia, il cantato di Lou non era certo quello che ti aspetteresti nel 1964 in una dance hit radiofonica per giovani casalinghe represse e teenager bianchi e innocenti. La rabbia garage espressa nella sua voce non esisteva prima e anticipa di qualche lustro, oltre ai Velvet stessi, gli Stooges e tutto il punk e garage dei successivi 50 anni. Inoltre, Reed aveva accordato tutte le corde della sua chitarra sulla stessa nota creando un “effetto drone” che a Cale ricordava il lavoro con La Monte Young. Dopo che Reed gli raccontò delle “altre canzoni” che teneva nel cassetto, quelle che la Pickwick non gli avrebbe mai pubblicato, tipo Heroin, i due finirono ad abitare insieme a Ludlow Street, a New York Downtown e, reclutati Sterling Morrrison e Maureen Tucker emersi da vecchi giri di conoscenze di Lou, si giunse alla formula perfetta: The Velvet Underground.

Todd Haynes è un regista cinematografico con un certo curriculum (Poison, Lontano dal paradiso, Carol), parecchi premi e candidature agli Oscar, a Cannes e a Venezia. E’ considerato tra i padri del movimento cinematografico “New Queer” e ha una certa esperienza nel raccontare la storia di figure iconiche della musica moderna: si veda Io non sono qui, una non convenzionale biopic su Bob Dylan del 2007. Con queste credenziali chi meglio di lui per raccontare le storie della band maledetta per eccellenza che oltre 50 anni fa sdoganò e fece emergere la sommersa e repressa cultura queer, dandole cittadinanza letteraria e musicale e gettando le radici per tutto l’alt-rock di cui da allora in poi il mondo avrebbe goduto.

Come racconta Haynes, i Velvet giunsero alla “Factory” di Andy Warhol dopo essere stati scoperti in un locale underground da una seguace del genio della pop-art: Barbara Rubin. E si sente la voce di Lou raccontare che Warhol produsse il loro primo disco, “nel senso che stava respirando nello studio mentre lo registravamo, ma fece anche molto di più: mettendo il suo nome sul disco rese possibile che la casa discografica non cambiasse e non toccasse nulla di ciò che avevamo fatto”.

Warhol rese quindi possibile la rivoluzione musicale, nonché più in generale dell’arte e dei costumi, che i Velvet scatenarono. Il film è anche il racconto di come la mancanza di riscontri commerciali creò frustrazioni e paranoie in Reed, che cominciò a fare il vuoto intorno a sé, cacciando prima Warhol e poi Cale, fino ad andarsene lui stesso nel 1971 dopo l’ennesimo insuccesso del quarto album Loaded, di fatto terminando l’avventura.

Nel mezzo, Haynes racconta la meteora Nico, grazie anche ad immagini e testimonianze che danno bene il senso della bellezza ultraterrena della cantante e modella tedesca, nonché del suo distacco artistico dai Velvet, che pure non le impedì di dare un contributo fondamentale. Altresì, viene spiegata la discesa nel mondo della droga (metanfetamine più che eroina, malgrado la succitata canzone) e del sesso più ambiguo e “degradante” possibile, in cui il ragazzo adesso poco più che venticinquenne condusse la band: “se non è degradante, non è eccitante”, spiega Reed il suo rapporto con il sesso all’epoca, nella testimonianza qui portata da un amico.

Quasi due ore non sono poche per un documentario musicale, eppure alla fine nasce la sensazione che manca ancora qualcosa, che vi sia ancora tantissimo da raccontare. E questo non è certo un difetto del film che invece ha il merito d’instillare questa curiosità. Non so se dopo quest’opera tutte, o quasi, le immagini dell’epoca, prese alla Factory o on the road, durante il tour dello show “Exploding Plastic Inevitable”, siano state sfruttate. E se dal punto di vista visivo vi sia ancora tanto da mostrare per raccontare la storia di questa band che ebbe una influenza incommensurabile nella storia della musica. Ma vi è ancora tantissimo da sapere, da leggere, da ascoltare, per capire come sia possibile che, come  notoriamente raccontò Brian Eno, “ognuno dei 30.000 ragazzi che comprarono The Velvet Underground & Nico decisero di formare una band”. E perché il tributo da pagare a Lou, John, Sterling, Maureen, Andy, Nico, sia ancora lungo e durerà ancora per diversi decenni.

Quest’opera di Todd Haynes è un buon punto di partenza per capire questo perché.

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