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Interviste

Voce, macchina, distanza, metamorfosi: intervista a Simone Faraci

Foto: Anna Messere

Uscito ad inizio ottobre su Slowth Records, “Echo ex machina” (qui la nostra recensione) è l’album di debutto di Simone Faraci, giovane compositore siciliano di stanza a Bologna che, dopo una formazione di stampo classico, ha scelto di dedicarsi alla ricerca nel campo della musica elettronica e dell’improvvisazione, della musica per la danza e il teatro, il paesaggio sonoro e la didattica.

Echo ex machina” è un ambizioso concept album sulle voci mediate dalla tecnologia. Quello a cui si assiste durante l’ascolto dell’album è una smaterializzazione della fisicità umana in tutte le sue forme, una smaterializzazione che porta il medium stesso ad essere il messaggio.

Lo abbiamo incontrato per saperne di più sul suo lavoro e sul suo approccio musicale.

Ciao Simone! Allora, inizio subito col parlare del tuo primo progetto solista, “Echo ex machina”. Ti va di raccontarci, in maniera approfondita, il concept dell’album?

Il concept ruota intorno a quattro concetti: voce, macchina, distanza, metamorfosi. Nel corso dei cinque brani, che sono concepiti come cinque parti di una unica composizione, ho cercato di esplorare a fondo la relazione tra questi concetti. In particolare mi interessava quella tra voce e macchina, una relazione che contiene già in sé il concetto di metamorfosi. Nel titolo faccio riferimento al mito della ninfa Echo, che perde il suo corpo per diventare sola voce. Questo mito mi è tornato alla mente pensando a come le nostre voci viaggino ormai indipendenti dai nostri corpi. Non è una grande novità, l’invenzione del telefono e della radio hanno abbattuto quella barriera ormai da più di un secolo, ma la quantità di voci che oggi sentiamo tramite i nostri device personali è enorme. Tra chiamate, videochiamate, conference call e messaggi vocali, non posso fare a meno di chiedermi se ad un certo punto saranno di più le voci che sentiamo tramite la tecnologia rispetto alle voci che sentiamo in presenza. Un’esperienza di questo scenario la abbiamo fatta durante la pandemia, ed è stata la scintilla che mi ha dato l’idea per Echo Ex Machina.

L’idea del progetto è nata infatti l’inverno scorso, quando Tempo Reale mi ha chiesto di realizzare un solo live per StudioVox, un ciclo di concerti online sul tema della voce.  Da quella commissione è nato un solo di 15 minuti, che rappresenta l’embrione del disco.

Ho poi deciso di espandere quell’idea, di continuare a esplorare la profondità di questa materia. In Echo Ex Machina ho avuto anche la fortuna di collaborare con Agnese Banti, che ha dato fondo a tutto il suo repertorio di voci, dal canto armonico alle sperimentazioni più ardite.

Quando ho ascoltato il tuo “Echo ex machina”, ho avuto la sensazione di trovarmi dinanzi ad un album techno, non per la ritmica dei pezzi che evidentemente si basano su altro, ma per la complessità che caratterizza il genere e per la naturale propensione a celebrare il dispositivo e il supporto in grado di generare un certo suono. So che il parallelismo potrebbe essere azzardato, ma mi piacerebbe sapere tu cosa pensi a riguardo.

In Echo Ex Machina c’è sicuramente un grande interesse per il dispositivo e per le possibilità che gli strumenti della musica elettronica offrono. Il disco è quasi tutto “suonato”, non c’è nessuna programmazione in midi, e le sequenze ritmiche sono tutte registrate da synth hardware.  La sequenza di voce in Τυέρτι è realizzata con un campionatore, ma anche in questo caso tutti i cambiamenti ritmici sono stati eseguiti dal vivo durante la registrazione. E poi c’è anche il vocoder! Quindi direi che c’è sicuramente una gioia nel suonare i dispositivi ma non sono sicuro che questa corrisponda a una loro celebrazione in questo progetto. Nel mio disco cerco di far rimanere il dispositivo trasparente, di mantenere sempre una ambiguità su come certi suoni sono stati realizzati, specialmente quelli più complessi.

Per la musica elettronica la macchinazione della voce, che in “Echo ex machina” hai trattato come materia al servizio della tecnologia, è un fatto, diciamo così, ontologico. Per te, la voce, che sia umana o sintetizzata, cosa rappresenta?

Per me la voce è innanzitutto presenza. Nella musica elettronica, per come la intendo io, è una rappresentazione della sua presenza, o una trasfigurazione che ne esplora gli aspetti espressivi. La voce sintetizzata ha un aspetto ancora più misterioso che riguarda secondo me l’umanizzazione della macchina, una volontà di creazione di una macchina senziente che la letteratura ha abbondantemente trattato: da Frankenstein ai robot di Asimov. E da dove passa la prima forma di espressione, di presenza di esistenza se non dalla voce? In Echo Ex Machina credo che i brani in cui questo aspetto è maggiormente presente siano  Τυέρτι, Apparatus [songmachine] e Metamòrpho.

Artwork: Valerio Immordino

Le macchine, reali e immaginarie come quella nel brano Apparatus [songmachine], quanto sono vicine al tuo sentire? Cosa riescono a restituire che uno strumento musicale “classico” non è in grado di trasmetterti?

Io ho cominciato i miei studi musicali con il pianoforte, diplomandomi in conservatorio. La fisicità dello strumento musicale rimane per me importantissima, perché permette di esplorare la continuità tra il gesto e il suono. Penso che gli strumenti elettronici non siano da meno su questo aspetto e che la ricerca sulle interfacce e sui controller continui a fare grandi passi avanti in questo senso.

Il tuo album mi ha riportato alla mente molte, moltissime cose. Per prima, il détournement situazionista nel quale frammenti di senso già compiuti vengono decontestualizzati e rielaborati in un nuovo contesto, acquisendo nuovo senso e nuovo significato. Mi riferisco al brano Scroll Macabre. Come ti è venuto in mente di usare i reel di Instagram e in base a quali criteri hai scelto i campionamenti?

Ho deciso di usare i reel perché penso siano un ottimo esempio del détournement collettivo che il discorso prodotto dalla nostra civiltà sta affrontando. Ogni reel è un frammento di un discorso sconnesso che facciamo scorrere ritmicamente sui nostri dispositivi. In Scroll Macabre ho voluto ricreare questa esperienza, registrando più di 40 minuti dal mio feed e rimontandoli in modo da ottenere una continua ambiguità di senso.

Roland Barthes, in uno piccolissimo saggio, sosteneva che “La Frase è gerarchica: implica delle subordinazioni, delle reggenze interne”. Tu hai infranto queste reggenze, nel brano Τυέρτι. E non solo in quel brano. Come ti sei sentito delegando ad una macchina, che agisce secondo un principio casuale, la ricostruzione di un discorso?

Devo confessare che nutro nei confronti della macchina una sorta di sacro timore. Sono un appassionato lettore di Asimov e nella sua quadrilogia dei robot mi ha sempre affascinato il modo in cui questi vengono rappresentati nelle loro caratteristiche più umane: macchine programmate per comportarsi come umani ma che al tempo stesso mancano di consapevolezza. Questo è stato per me il punto di maggiore interesse nella composizione di Τυέρτι, dare in pasto a una macchina una serie di sillabe in modo che le ricombinasse in modo casuale senza avere alcuna consapevolezza. Riascoltando ovviamente ci si rende conto di come sia la nostra mente a cercare un significato in quella che alla fine è solo una sequenza di suoni.

Il discorso affrontato in “Echo ex machina” è articolato, complesso e soprattutto mutevole. Pensi che lo affronterai, magari con mezzi diversi adatti al momento, anzi al frammento, storico oppure lo consideri un discorso chiuso?

Il discorso sulla voce è per me un discorso sempre aperto. L’avevo già affrontato in Un giardino improvviso, un brano uscito nella compilation Bolognasound Vol.1 (2020), sempre per Slowth Records. Negli ultimi anni poi ho lavorato molto con il teatro di parola: Ho una voglia di andare a Parigi con Maria Caterina Frani, Tra(ü)me e Havèl con Minus. Mi interessa moltissimo il modo in cui la voce e la parola possano rapportarsi con il suono e con la musica, sia in una composizione musicale che in una improvvisazione. È un tema al quale tengo molto, che fa parte del mio orizzonte musicale e che continuerò a indagare ancora in futuro.

Grazie per il tempo che ci hai dedicato, è stato un piacere!

Grazie mille a voi, è stato un piacere anche per me!

Foto: Roberto Deri

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