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Idles – Crawler

2021 - Partisan Records
indie / punk

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Tracklist

1. MTT 420 RR
2. The Wheel
3. When the Lights Come On
4. Car Crash 
5. The New Sensation
6. Stockholm Syndrome
7. The Beachland Ballroom 
8. Crawl!
9. Meds
10. Kelechi
11. Progress
12. Wizz
13. King Snake
14. The End


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“Ok, mi sa che è la volta in cui escono dalla comfort zone”.

Questo il mio primo istintivo pensiero all’ascolto di The Beachland Ballroom, singolo di lancio che senza troppe anticipazioni, alle porte di quest’autunno, ci ha introdotto a una forma canzone inedita per il quintetto di Bristol: atmosfera più struggente, pianoforte ignorante a guidare l’incedere, organi come comprimarie, crescendo epico e esplosivo nel finale. Talbot che si straccia le vesti da born-to-be frontman per darle alle fiamme prima di indossare quelle del cantautore hardcore intento a domare i propri demoni. L’ho accolta subito come uno dei picchi più alti che avessero mai toccato ed è lì che in me crebbe fortissima, come un pensiero appiccicoso, la parola “hype”.

Car Crash, pubblicata poche settimane dopo, pur rimandando a un approccio musicale molto diverso (e, ora possiamo dirlo, ben più egemone all’interno del disco rispetto a quello di Beachland Ballroom) ha contribuito a corroborare l’ipotesi dell’inaspettato e dell’imprevisto. 

Promesse ambiziose e premesse attese. Infatti pervade dopo i primi ascolti l’impressione che con questo “Crawler” , loro quarto album, il microcosmo musicale degli Idles abbia subito i primi significati segnali di variazione rispetto allo standard consolidato.  

Premetto doverosamente che per me gli Idles, nel darwinismo del punk, hanno in solo tre dischi raggiunto la posizione eretta, scoperto il fuoco e inventato la ruota. Tre dischi superbi, usciti a pochissimo tempo di distanza, ciascuno dei quali è un’ottimizzazione di una ormai ben collaudata formula in cui convogliano a nozze post-punk e post-hardcore con tante altre sonorità a fare da damigelle. La capacità di essere attinenti alla contemporaneità come pochi altri gruppi e di avere rivisitato le radici del punk alla luce di nuove emergenze sociali e individuali, efficacemente sintetizzate dalla maestria lirica di Joe Talbot e senza comunque disdegnare la ricerca sonora, li consacrano come uno dei gruppi più importanti in giro, tra i pochi in grado di appropriarsi genuinamente e credibilmente di ideali progressisti, a volte sviliti nella musica mainstream come pretesto poco genuino per salire sul carro dei vincitori (opinione, questa, del tutto personale). 

Con “Crawler” lo stile e le convenzioni musicali non cambiano, tra chitarre sghembe piene di attacco e ritmiche che pestano solidissime. Le atmosfere però sembrano iniziare a scurirsi, con una predilezione più accentuata per approcci talvolta disincantati e talvolta malinconici. L’attitudine è sempre quella dell’aggressività positiva ma mancano i momenti più scanzonati o anche ironici, quelli da cantare abbracciati e urlando magari dopo la sesta pinta al pub, che non sono mai stati la quintessenza degli Idles ma che comunque erano parte della loro palette di colori. Per intenderci, in questo disco difficilmente troverebbero collocazione brani come I’m Scum o Mr Motivator

Nell’istante in cui accendiamo la miccia della dinamite il primo sentore è quello dello spiazzamento. Il candelotto non esplode. Nessuna partenza al fulmicotone come eravamo abituati. Nulla che faccia le veci di Heel/Heal o di Colossus

“Era febbraio, faceva freddo e stavo fatto”. Cosi si apre il disco, con le atmosfere sospese, senza ritmica, di MTT 420 RR, in cui le chitarre lasciano il posto a sintetizzatori analogici e dove per la prima volta vediamo un Joe Talbot più baritonale e controllato, in uno stato di estasi e ispirato da un’epifania di Nick Cave. Cosa sia successo in quella notte di febbraio si può tentare di evincerlo dalle liriche: probabilmente un incidente stradale, in moto, mentre la pioggia bagna l’asfalto. “Are you ready for the storm?” Così si chiude il brano di apertura. E tempesta sarà. 

The Wheel infatti si lascia alle spalle i suoni più morbidi dell’opener e apre con una sezione ritmica dura come l’ardesia, grazie alla ormai conclamata chimica da Adam Devonshire e Jon Beavis. Torna il loro stile classico in cui sono in primissimo piano le chitarre, quest’ultime sfibratissime, piene di gain, sempre un’ottava sotto e che insieme al basso creano un muro imponente nel ritornello. When The Lights Come On invece tende a dirigersi lungo i binari decadenti del post-punk e della dark-wave, riecheggiando non solo di Nick Cave ma anche di Joy Division e di Sonic Youth. Canzone che – voce a parte – non avrebbe sfigurato nell’ultimo disco dei Fontaines D.C e che veste gli Idles di un fascino mesto mai avuto fino a questo momento. 

Car Crash lascia che le tendenze contingenti al rumorismo e alle sonorità industriali, mai sopite ma sempre lasciate nelle fila posteriori della loro fisionomia, esplodano fragorosamente. Brano se possibile ancora più maturo e in grado di raggiungere l’acme nell’apertura di chitarra arpeggiata prima che subentrino le distorsioni. 

Formula più standard in The New Sensation e Stockholm Syndrome, che preparano il terreno per The Beachland Ballroom, di cui si è già scritto sopra. A mio giudizio il capolavoro del disco e, al contempo, il brano meno rappresentativo in termini di sonorità, intelligentemente presentato come primo singolo, dove senso di sconfitta e di rinascita coesistono in un allegoria sul sentirsi prima persi per poi superarlo. Quelli che strisciano siamo noi che non sempre riusciamo a vivere tutto con leggerezza e che giorno dopo giorno proviamo a rimetterci in piedi a denti stessi.  

La seconda parte del disco prefigura un approccio più “In your face” e dove si tende a menare più forte, con la sola eccezione di Progress che è un curioso momento di sperimentazione basato su sonorità più astratte e impalpabili anche se, a giudizio di chi scrive, non particolarmente efficace. 

Crawl! è una rivisitazione più energica del punk inglese che farà felici i fan di The Fall e Buzzcocks mentre in Meds (qui c’è addirittura un sax) è possibile scorgere nel chitarrismo di Bowen (in questo disco anche produttore) e Kieran quello stile tagliente e distonico tipicamente figlio dei Pixies. Si procede più canonici verso le conclusioni con Il cazzeggio hardcore di Wizz, che comunque può far sorridere per la sua schizofrenia, e King Snake che lascia la sensazione di stare ascoltando un (comunque dignitoso) lato b di “Brutalism”. 

Il disco si chiude del tutto con The End come monito per non dimenticarci che gli Idles, quando scandagliano i propri drammi personali e affrontano lucidamente le proprie fragilità e le proprie dipendenze (nel merito, quelle di Joe Talbot), non intendono incasinare la bussola dei propri fan: “In spite of it all, Life is beautiful”. Risuona forte questa frase come un’antifona nel ritornello per chi non ce la fa più a strisciare e vuole provare a rialzarsi, giorno dopo giorno, a vari livelli di intensità, senza vergogna solo perché si arranca ancora sul pavimento.

“Crawler” è un disco sofferto che mette i demoni in primo piano ma che li abbatte riff dopo riff, strofa dopo strofa. Quanto la creatura degli Idles si spingerà oltre nei prossimi anni non ci è per ora dato saperlo ma allo stato attuale delle cose resta il loro disco di maggiore discontinuità, il più difficile da assimilare e magari il primo che per alcuni fan potrà non risultare felice in ogni una manifestazione. Classico album da comprendere oltre che da ascoltare. 

“The Most important band in the world?” Si. Più forte che mai. 

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