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“Deliverance”, in picchiata eterna nell’inferno degli Opeth

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Quando si parla degli Opeth è impossibile tacere della schiera di detrattori che si sono conquistati, una delle più compatte ed agguerrite nel rock tutto. Si tratta per lo più di persone che non hanno mai ascoltato Forest Of October, ed essendo io un signore eviterò di parlarne. Resta il fatto che questi rumorosi hater pongono, magari per puro caso, una questione spinosa: dopo aver scritto una serie di capolavori assoluti del metal a tinte gotiche, con costanza, estro e genio, Åkerfeldt & co. hanno perso completamente la bussola e sono diventati le caricature di loro stessi. Quando è cominciata la china? Beh, una risposta potrebbe essere proprio con “Deliverance“.

È un dato di fatto che nessuno ha mai più suonato come i primi, avventurosi Opeth; nemmeno loro stessi. Riascoltato adesso, l’esordio “Orchid” suona effettivamente un po’ acerbo, e forse il disincanto dell’età adulta non gli rende giustizia. Ma “Morningrise“, che con mia grandissima meraviglia figura tra le cose meno preferite dal suo autore, fu per me un colpo devastante: una liturgia delle ore, somministrata in cuffietta andando a scuola, come colonna sonora a pranzo con la pasta al tonno, fumando al buio nel pomeriggio, di nuovo in cuffietta a letto, per sognare boschi, fantasmi, e quel ponte che solo anni più tardi scoprii stare in un parco a Bath (quando sarò pronto ci andrò in pellegrinaggio, e probabilmente morirò lì).

Ma dopo il tour di “Morningrise” gli Opeth cessano di esistere per un breve lasso di tempo, e quando risorgono sono praticamente un altro gruppo: la tessitura musicale non si sviluppa più in orizzontale, le chitarre non fanno più a gara per portare la melodia come se si credessero violini di una canzone folk senza tempo e senza nome. Subentrano accordi, tellurici e profondi, praticamente assenti fino ad allora. E poi l’affascinante armonia degli esordi, presa di peso da un canzoniere popolare scandinavo, viene del tutto abbandonata in favore delle tinte sinistre del black metal, di un’ostentata rabbia testosteronica, e di una matrice blues filtrata attraverso la sempre più invadente ossessione di Åkerfeldt per gli anni ’70. 

L’improbabile mischione sta in qualche modo in piedi. “My Arms, Your Hearse” è un disco non scevro di colpi di genio, e il successivo Still Life perfeziona la formula, potenziando l’aspetto tecnico e strutturando le rapsodie disordinate di riff degli esordi in forme più coerenti. Il nuovo stile che ne risulta, suggellato dal “Blackwater Park” che porterà il nome degli Opeth su tutte le bocche, costituisce un matrimonio memorabile di prog-rock e metal estremo; ma segna anche la fine del periodo più felice della band, che da quel momento in poi ripeterà all’infinito la stessa formula fino a svuotarla di significato e trasformarla in un cliché. “Deliverance” si colloca in questa fase.

Ricordo che eravamo in tanti ad attenderlo impaziente, lui e il “gemello buono” “Damnation“: la band aveva prodotto materiale per un doppio, poi smembrato in due uscite, la prima con i pezzi cattivi, la seconda con quelli soft. Ma già questa separazione con l’accetta era sospetta, perché uno dei punti di forza degli Opeth consisteva proprio nella capacità di integrare in maniera credibile aggressione e rassegnazione, odio e malinconia, sofferenza e estasi gioiosa. Ricordo anche che ascoltarlo fu una delle più grandi delusioni della mia adolescenza.

Deliverance” colpisce più duro che mai, snocciolando tutto il repertorio già citato e altro ancora: mazzate dalla Florida, progressioni spettrali made in Norvegia, cromatismi lividi e serrati, synth lievemente psichedelici, assoli à la Dream Theater, voci pulite, arpeggi sinistri. Tutto è confezionato a modino e ripetuto N volte più del necessario. Vorrebbe essere un trionfo, ma non riesce a scrollarci di dosso la sensazione sgradevole che si tratti solo di una posa.

Forse, semplicemente, Åkerfeldt aveva superato le sue paturnie tardo-adolescenziali, piuttosto problematiche, ma sincere e profonde, e non gli restava più altro che svolgere il compitino e mostrare un po’ i muscoli. Una volta ottenuto il successo, tutte quelle fantasie gotiche forse erano ingombranti, imbarazzanti; dovevano essere una facciata, un’estetica. Per carità, si cresce e va bene così, ma a volte nel processo qualcosa di prezioso si perde per sempre. Fatto sta che il pathos va a farsi benedire e il risultato è che gli elementi più indigesti risaltano particolarmente. Per dire: la title-track sfocia in un tragico ostinato ritmico, lo stesso che potete ottenere in sala prove se il chitarrista si fissa per qualche motivo sul suonare mi minore a oltranza e decidete di improvvisare una cosetta che poi finirà nel dimenticatoio. Ecco, letteralmente una roba del genere gli Opeth l’hanno registrata, ed è fra i momenti più iconici del disco.

Dopo un po’ l’intensità fisica cala, a beneficio dell’ispirazione (anche se A Fair Judgement allunga il brodo in maniera insensata, senza ottenere alcun effetto tangibile al di là di qualche sbadiglio). Ma dopo la quarta traccia, For Absent Friends (bella fantasia blues agrodolce abbandonata a sé stessa), sono passati 40 minuti, e all’ignaro ascoltatore ne aspettano ancora 20 di musica noiosa e sciatta. 

Esiste una pagina Facebook di meme metallari che si chiama Mikael Åkerfeels, tutta giocata sulla dialettica dei feels – i sentimenti fuori misura di un’adolescenza che per forza di cose si trascina fino ai 20 inoltrati. Il gioco è prenderne le distanze, nel tipico distacco ironico millennial. Non è un caso che proprio il frontman degli Opeth dia il nome alla pagina, lui che ha riversato in musica turbe giovanili assurdamente affascinanti, profonde e fantasmagoriche, per poi farne mercato trasformando sé stesso in personaggio (che, solo per citare un aneddoto, ci tiene moltissimo a raccontare ai fan italiani quanto gli sia piaciuto fare sesso con la moglie a Taormina bevendo da un’anguria svuotata), e le suddette turbe in macchietta. Ad ogni modo ha plasmato il mio giovane immaginario (ok, in maniera non del tutto sana, ma non è importante), e mi ha dato materiale per sognare; non posso davvero volergli male.

Nonostante le tante cose brutte che ha scritto e suonato da “Deliverance” in poi, mi auguro che abbia trovato una pace interiore, che si diverta con le sue scale bizantine e i suoi chitarroni, e che la notte dorma sereno. “You sleep in the light, yet the night and the silent water still so dark…

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