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Back In Time

“Ghost Tropic” di Songs: Ohia, fuggire dal tempo e dallo spazio

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Sono sempre stato contrario all’incasellare un’artista o una sua opera in un genere predefinito. Al massimo possiamo captare dei tratti distintivi, paradigmatici, per quando ad esempio dobbiamo stilare una compilation da dj da far riecheggiare nel pub di turno, in piena notte. Musica ballabile o semplicemente di sottofondo.

E a smentirmi, c’è proprio “Ghost Tropic“, una pietra miliare nella discografia di Jason Molina, o meglio Songs: Ohia. Registrato nel Nebraska da Mike Mogis con il contributo di Alasdair Roberts, Shane Aspegren e alcuni membri dei Lullaby for the Working Class, il disco suona come se non fosse stato registrato in un tradizionale studio di registrazione, ma piuttosto dal vivo in una capanna infestata in una foresta pluviale, a notte fonda. Album controverso nella discografia di Jason, non sempre amato e di difficile approccio. Suonato in semi isolamento – sostanzialmente alle registrazioni oltre a Molina hanno partecipato i soli Shane Aspegren  alle  tastiere, Mike Mogis al mandolino/banjo/chitarra e Alasdair Roberts al basso – “Ghost Tropic” mostra un songwriting dilatato e lento, vicino al sound degli ultimi Talk Talk, un lungo flusso di coscienza da ascoltare in estasi dall’inizio alla fine.

Un caleidoscopio di sonorità elettriche e folk, alle quali però va aggiunta come elemento caratterizzante quello delle “voci”, gli uccelli che stridenti come come corvi sono svegliati dalla musica inquietante e che contribuiscono ad alimentare scene spettrali. Nessuna delle otto tracce che compongono “Ghost Tropic” si può includere nella definizione tradizionale di canzone. Sono più simili a movimenti che compongono l’insieme più grande dell’album, che funge da canzone unica di 51 minuti.

In Lightning Risked It All adoro come quella grancassa rimbomba in modo minaccioso, mi dà davvero quella sensazione di  quando sei solo di notte e senti qualcosa che ti fa sussultare. Sai che va tutto bene, ma ti mette comunque al limite e quella sensazione non svanisce. È come se quel boom creasse per me l’atmosfera dell’intero album.

Il resto dell’album non è molto diverso, con la maggior parte delle sue tracce che raramente progrediscono da dove iniziano. Le percussioni sudamericane di solito offrono un accompagnamento temperato insieme a un pianoforte fragoroso, entrambi sono occasionalmente completati da una chitarra spagnola, pedal steel, glockenspiel, una inquietante tastiera-coro o un triangolo stridulo.

E la voce di Molina entra inevitabilmente, di solito dopo lo scoccare del minuto, per consegnare, sul bordo di un letto di morte, frasi come “Death as it shook you / You gave it a fool’s look / You said I am an empty page to you” (The Body Burned Away), o “Simply to live / that is my plan / in a city that breaks us / I will say nothing (No Limits On The Words).

Ascoltare “Ghost Tropic” significa assorbire colori, immagini, sensazioni, lasciandosi riempire la mente vuota dalle sensazioni di Songs: Ohia. Forse Jason Molina cercava una via di fuga da quello spazio che l’uomo ha frammentato per sopravvivere, sognandosi sovrano del tempo per sentirsi un po’ meno solo ed irrisorio.

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