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Back In Time

“Isn’t Anything” dei My Bloody Valentine: manuale per perdere la cognizione del tempo e dello spazio

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Oggi parliamo di “Isn’t Anything”, primo album dei My Bloody Valentine uscito per la Creation Records nel 1988 dopo numerosi EP, molti dei quali sfortunatamente ignorati dalla critica della scena alt/indie rock inglese dell’epoca.

Caposaldo dello shoegaze, “Isn’t Anything” unisce distorti acidissimi e sonorità noise a bassi potenti e voci soavi, ciò che in realtà caratterizza la band irlandese composta da Kevin Shields (chitarra e voce), Colm O’Ciosoig (batteria), Debbie Googe (basso) e Bilinda Butcher (voce e chitarra).

Purtroppo io sono nata troppo tardi per potermi godere la scena shoegaze inglese tra anni ’80 e ’90, di cui i My Bloody Valentine erano il centro focale. Tra l’altro ho avuto occasione di conoscerli per la prima volta con “Loveless”, fatto partire in treno, di ritorno da Bologna, in una serata di sorda malinconia che non mi permetteva di ascoltare assolutamente niente con coscienza di causa. Che vergogna… L’unica cosa che mi consola è che non è mai troppo tardi per ritirare fuori della musica bella.

Ed è proprio per questo che oggi mi trovo qui a parlare di “Isn’t Anything”, che mi proietta in atmosfere super anni ’80 in certi casi, come ad esempio per quanto riguarda Sueisfine (che nel cantato sembra “suicide”) o anche You Never Should, dove bassi tiratissimi sono accompagnati dalle tipiche batterie anni ’80 – non so se sia un bias solamente mio, ma quando ascolto album di qualsiasi genere registrati in quegli anni mi sembra che le batterie siano molto sorde in un certo senso, come se mancassero loro delle frequenze basse; quindi quando le sento è come se nel mio cervello si attivasse un radar temporale che mi fa dire “questa musica è proprio anni ‘80”. Poi, mi rendo conto che siano osservazioni che potrebbero indurre voi lettori a pensare che mi faccia di qualche droga pesante o che semplicemente sia un po’ scema, ma tant’è.

Quello che contraddistingue i My Bloody Valentine, tuttavia, è che certi brani, sprovvisti di una struttura ben precisa e particolarmente noise – come ad esempio All I Need, in cui si sentono delle chitarre distortissime di cui non si percepiscono neanche le pennate – non sono riconducibili a nessun periodo temporale; ed è qui che il mio radar va in palla, anche perché l’effetto del noise è proprio quello di far perdere la cognizione di tempo e spazio per immergere chi ascolta in un mondo liquido di sensazioni personalissime eppure condivisibili.

L’habitat naturale dello shoegaze, in ogni caso, sono centri sociali pullulanti di (più o meno) giovani punk rockers che si divertono ad ascoltare stridule chitarrine distorte suonate da gente con ciuffi da emo che, con le stesse chitarrine, condivide quella disperazione che per tantǝ diventa una costante della vita. Forse facevano proprio questo i My Bloody Valentine, anche se negli anni ’80/’90 e in pub underground tra Inghilterra e Irlanda, probabilmente molto più vivaci dei centri sociali che frequento io ora tra gli anni ’10 e ’20 del ventunesimo secolo.

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