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Interviste

Dipingere il disastro che verrà: intervista a Eraldo Bernocchi

(c) Robin Guthrie

Dopo anni di silenzio Eraldo Bernocchi riporta alla luce il progetto Simm e facendolo dà vita ad un nuovo album. “Too Late To Dream” (qui la nostra recensione) è narrazione di rottura in cui la fantascienza viene superata dalla realtà, ed Eraldo assiste allo spettacolo di questa realtà attraverso gli occhi di Simm, dipingendolo a tinte fosche. Ne abbiamo parlato direttamente con lui.

Ciao Eraldo, come stai? Comincio quest’intervista fresco del quarto ascolto di “Too Late To Dream”, fatico a toglierlo e più lo faccio ricominciare più sento di trovare qualcosa di nuovo. Detto ciò, quando hai sentito il bisogno di riportare in superficie Simm?

Ciao Fabio! Molto bene grazie. Sei già al quarto ascolto? Devi avere una bella resistenza. Grazie mille!  Simm non è mai morto. È un progetto che esce dal suo torpore solo quando ho abbastanza materiale che mi soddisfi o delle idee per un album o un singolo. C’è un folder sul mio Mac dove infilo brani e idee che potenzialmente potrebbero funzionare per questo progetto, quando scatta la scintilla gli do un’occhiata, a volte trovo cose interessanti, altre volte butto tutto. Questa volta c’erano spunti da cui partire.

Parli di Simm come uno “spettatore” e un “testimone di disastri”. In cosa differisce, per te, dai tuoi altri progetti? In che modo il suo essere “semplice” spettatore influisce nel tuo modo di approcciartici?

Non è molto differente dai miei altri progetti in realtà. Simm e i miei dischi ambient sono il territorio più personale nella mia geografia sonora. Gli altri progetti vedono quasi tutti collaborazioni. Simm è come dipingere, guardo fuori dalla finestra e dipingo ciò che vedo. In questo senso mi sento spettatore. Sono istantanee.

Uno degli elementi che più mi ha affascinato dell’album è il concetto che si cela dietro al titolo, ovvero l’idea che se un tempo racconti e film distopici raccontavano sì quel tipo di presente, ma ne estremizzavano le conseguenze in vista di un futuro probabile ma non ancora palesatosi, mentre ora sembra che la società abbia raggiunto quegli “scatti in avanti”, quelle fantasie, e sia tutto reale. È un ragionamento che stavo facendo leggendo “Agency”, il nuovo libro di Gibson, e che continua a seguirmi ora che sto concludento “L’arresto” di Lethem. A che punto pensi non sia più tempo di sognare, quanto la musica può ancora guardare avanti e quanto “è finita”, come dici descrivendo l’album?

Non è facile risponderti, non ho letto i libri che citi, cosa che pero a questo punto farò quanto prima perché mi hai incuriosito. C’è una parte di me stesso che ovviamente viene stimolata dall’autoconservazione, piuttosto che dalla necessità e volontà di proteggere le perone che ami, gli affetti. Questa parte cerca di spiegare a quella pragmatica, matematica e logica che non è finita, che ce la possiamo ancora fare. Dall’altro lato guardi fuori dalla finestra e tutto ciò che puoi dipingere è il disastro che verrà. Mi inquieta molto la quasi sparizione del confine tra fantascienza e quotidianità. In alcuni casi non c’è più, viviamo in un contesto dove le nostre esistenze sono esposte a una mostra di arte cinetica, le guardiamo da fuori, ipnotizzati dal movimento delle illusioni ottiche dentro le quali viviamo. 

Una componente spiazzante è quello della presenza di voci, quelle di Flowdan e Phelimuncasi. Sto leggendo l’edizione italiana di “Più brillante del sole” di Kodwo Eshun e Gqom Squbulo trovo che sia la colonna sonora perfetta per farlo, mi pare quasi reincarni tanti dei concetti di quel libro trasportandoli nel 2021. Com’è nata la collaborazione con loro? Cosa pensi abbiano apportato alla cifra stilistica di Simm?

Non ho mai usato voci prima di adesso in Simm per scelta, ma è stato un passaggio naturale. Da ora in poi ci saranno sempre, mi annoio a morte dopo un po’ che lavoro da solo, mi piace confrontarmi; riferisci costantemente a se stessi è un ottimo processo di chiusura mentale.  A Flowdan sono arrivato attraverso un brano di Lady Chann, che è una vocalist di East London con la passione per la boxe, personaggio fantastico. C’è un pezzo che si intitola Knowledge  dove lui fa un feature. E li mi sono innamorato della sua voce profondissima e delle parole, che a volte sfiorano la poesia. Una frase come “Sometimes you got to look for disaster” vale da sola un pezzo. Poi mi sono ricordato che Flowdan aveva fatto cose anche con Kevin, The Bug. Ci siamo sentiti e da li è partito tutto. Phelimuncasi escono per Nyege Nyege Tapes, un’etichetta africana che sta facendo cose eccellenti e assolutamente trasversali. Ho contattato la label e loro erano entusiasti all’idea di fare qualcosa insieme. Oltre al brano sull’album ne abbiamo realizzato un altro che è adesso su una compilation curata da Gaudi che ci vede insieme a Groove Armada, The Orb, Gaudi, African Head Charge e molti altri. Entrambe le collaborazioni hanno radicalmente cambiato il mio approccio alla composizione. Simm è sempre stato un progetto nel quale i brani si dilatavano e sviluppano nel tempo, 5/6/7 minuti. In questo caso ho dovuto tagliare tutto il tagliabile, eliminare i tempi morti e creare respiro solo dove era necessario. Flowdan è stato molto utile ricordandomi che pezzi del genere “li vuoi riascoltare, non vuoi che sia necessariamente pesante farlo anche quando trattano tematiche impegnative. Devono essere preferibilmente corti”

Altra domanda, ma legata alla precedente. Simm, in qualche modo, entra nel mondo “hip hop”, nella sua concezione più d’avanguardia, se vogliamo. Mi sono tornati in mente Gettovetts, Cannibal Ox e Techno Animal. Pensando alle produzioni italiane, invece, ragionavo sul fatto che ci sia ad oggi ben poco che metta il rap su binari “altri”, mi sovvengono solo Artificial Kid e Uochi Toki, anche se c’è stato un momento in cui il rap pareva essere genere ben più “futuribile”, diciamo, di quanto non potesse essere certo rock sperimentale, ad esempio, ma il pubblico, anche quello più attento, ha prestato più attenzione ad artisti meno interessanti, più di facile presa. Perché hai scelto questo tipo di linguaggio per il disco? C’è qualcosa di questo genere che oggi ti colpisce? Qualche progetto in particolare, magari.

Onestamente non so dove “entri” Simm. Fin dall’inizio, cioè da quando Mick Harris mi chiese dei pezzi dark dub/hop per la Possible Records, Simm ha orbitato in quell’area. È hip hop ? Non ne ho idea. A me basta che suoni “fisico” quando alzo il volume, voglio che il basso ti spacchi le ginocchia se possibile, ma non voglio una muraglia di rumore fine a se stessa o sempre uguale; mi piace che i brani si evolvano, che trasmettano emozioni. I nomi che citi mi piacciono, specialmente Uochi Toki. l’Italia da sempre si riferisce a modelli culturali esteri, oggi va la trap, che tra l’altro ha anche degli ottimi artisti, domani andrà il “buribumpo” e lo stivale sarà  pieno di gente che lo fa. Tornado al disco, non ho scelto alcun linguaggio. Viene da solo. Simm è cosi. Non ho idea di come possa svilupparsi in futuro.Oggi mi piace l’hip hop giapponese, cinese e indiano. Ci sono artisti e produttori pazzeschi. Devi cercare e cercare cercare su YouTube ma alla fine trovi cose interessantissime per esempio Hideyoshi lo adoro cosi come Divine.

Spesso ho vissuto (e credo non solo io) la tua musica come “per immagini” e anche questa volta non posso che restare della stessa idea. Ad esempio mi è piaciuta molto la copertina dell’album che porta con sé un senso di ineluttabilità, di fine giunta da un pezzo e immobilità. Quando e perché hai scelto questa foto?

La mia musica è creata quasi sempre per immagini. Oso immaginare di poter fermare il tempo per un po’ se dipingo ciò che ho visto o vissuto con i suoni. La copertina come sempre è di Petulia Mattioli ma la foto originale, che era decisamente diversa prima che lei ci mettesse mano, è di Bruce McAllister, un fotografo americano che venne incaricato di documentare il disastro ecologico a cui sarebbe andata incontro l’America se non avesse preso misure di contenimento. La copertina per un paio di mesi è stata un’altra, poi Petulia mi ha proposto questa foto e per me era perfetta. Certo non è rassicurante o da fiducia nel futuro, la reputo un’ottima polaroid del domani.

Il disco in collaborazione tra Sigillum S e Macelleria Mobile di Mezzanotte uscito qualche mese fa mi ha dato l’impressione di narrare del gelo calato con il lockdown, mentre “Too Late To Dream”, pur prendendo di certo in considerazione questa situazione come parte del tutto, sembra più una sorta di “disgelo”, un muoversi tra le rovine, un ballo in mezzo alla follia. Quali sono le differenze sostanziali tra i due lavori (e i due progetti, perché no?), a tuo avviso?

Quando lavoro con Sigillum S, a che se tiro le fila di tutto io,  siamo comunque in tre, in questo caso c’era anche MMM. Cambia totalmente l’approccio. Nel primo caso c’è uno scambio costante di idee e mondi sonori, nel caso di Simm invece sono io che decido ogni cosa, devo confrontarmi solo con me stesso. Il disco SS/MMM l’ho visto come una colonna sonora di un film che stavamo vivendo, “Too Late To Dream” è più il commento al post lockdown, un po’ della serie “ne siamo usciti ma abbiamo comunque distrutto un altro pezzo di ciò che avevamo”

Come ti sei approcciato e come si è sviluppata la creazione di “Too Late To Dream”?

Come ti dicevo ho un folder dove archivio idee e suggestioni che forse un giorno potrebbero fare parte di Simm. Oltre a questo quando ho iniziato a lavorare sull’album mi sono posto un limite: basso e batteria, e dove possibile anche il resto,  avrei  dovuto realizzarli con una drum machine, niente loop campionati. Mi piacere limitare ciò che posso fare con la tavolozza dei colori, e considero le mancanze come tesori. Tutto il disco è costruito con un Elektron Analog Rytm MkII, melodie e armonie invece sono realizzato con un po’ di tutto, dagli analogici Korg del 78 passando per pianoforte, chitarra, qualsiasi cosa servisse allo scopo. Sono partito dai groove, se basso e batteria mi funzionano ho la spina dorsale del brano. Da lì ho registrato in multitraccia lunghissime improvvisazioni con gli altri strumenti di cui parlavo. Ore di editing per cercare le parti migliori, a volte venivano risuonate, a volte usate quelle delle improvvisazioni. Ci vuole tempo per un disco di Simm, anche un sedicesimo di break in un beat mi fa la differenza, specialmente da quando ho coinvolto le voci. Mi piacciono gli spazi, le sospensioni, i silenzi. Preludono al blast che torna dopo, ho lavorato anche su quelli, cercando di crearne dove magari non avrebbero dovuto esserci. Una volta avuti in mano gli scheletri dei brani, diciamo una versione che non mi facesse orrore ascoltare, ho cominciato a raffinare e tagliare. In genere parto da 9/10 minuti e arrivo a 4/5, in questo caso anche meno visti i featuring. Ho lasciato da parte almeno 7 tracce che non mi convincevano, o che mi sembravano “deboli”, dei riempitivi. Ogni volta che arrivo in fondo a un disco mi domando: se comperassi quest’album vorrei trovarmi tra le scatole una traccia del genere? Non vedrei forse l’ora che finisse per passare alla successiva? Nel dubbio le uccido, faccio sempre cosi.

Cosa c’è nel futuro musicale di Eraldo Bernocchi?

Un sacco di cose. Un nuovo album di Sigillum S, in uscita su Subsound; un album con Christopher Chaplin, il secondo capitolo del mio duo insieme a Hoshiko Yamane dei Tangerine Dream, un nuovo album di Blackwood al quale sto lavorando con una lentezza esasperante, Phonolab il duo con Gaudi che vede dei featuring di cui andiamo molto orgogliosi. Un paio di cose di cui non posso ancora parlare e ovviamente proseguo poi a comporre musica per pubblicità, films e documentari oltre a creare presets per macchine Elektron collaborando con la rivista inglese Attack Magazine e la Elektron.

Grazie mille per il tempo che hai concesso a ImpattoSonoro!

Grazie a te!

(c) Ales Rosa

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