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Dal fuck you al we’re fucked: “Metal Box” dei PIL

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Bruciare tutto. John Lydon lo sa fare, l’ha sempre fatto, votato alla fiammata, alla folgore, alla furia. Il furore dell’adolescenza, della ribellione, quando l’andare contro era tutto, era l’unica possibilità, l’unica visione. Una fiammata rapida, un paio di anni intorno al ‘77. Il furore poi si schianta contro l’insensatezza, il silenzio, il mulinello inarrestabile della disillusione, la tarantola della vita. E allora fare di questo schianto un’altra folgore, una fiammata fredda, gelida, il metallo sterile, squadrato, grigio, una scatola di metallo, nient’altro che una scatola di metallo. Da carnefice a vittima, un giro al contrario, la stessa violenza, espressa e repressa, il fu Johnny Rotten, l’anticristo, ora un contabile in giacca, nella sua società a responsabilità limitata, la Public Image Ltd: o di come si demolisce il punk.

Il progetto PIL voleva essere anti-tutto, fare anti-musica, non-solo-musica ma anche video, comunicazione, contabilità. Tutto, ma non il punk, Lydon brucia il passato, il presente e il futuro, noi oggi lo chiamiamo post-punk. Insieme a lui John Wardle detto Jah Wobble, che a malapena sapeva imbracciare il basso, e il fuoriclasse Keith Levene, «il Jimi Hendrix del post punk» (S. Raynolds), uno dei membri fondatori dei Clash, ma troppo aspro, troppo dissonante, troppo negativo; il primo si accolla la melodia, piana e ripetitiva, un minimalismo splendido, il secondo ha la licenza di sconvolgere, sfondare il muro del condizionamento.

Ed è tutto così “Metal Box“, una litania schizoide, claustrofobica, dove il basso fa da camera autoptica, la chitarra da bisturi impazzito e le voci sono quelle dei fantasmi, l’inconscio che si dimena in un corpo oramai freddo. È psicosi, ti fa male, ti scoppia la testa (Albatross, dieci minuti), a tratti invece ti viene da ballare e non sai perché (Memories, Death Disco/Swan Lake, Careering, Graveyard, Socialist), oppure ti culla con le sue chitarre, con quel basso morbidissimo, ma non lo fa davvero, perché per quasi otto minuti una batteria sempre uguale picchia un crash senza fermarsi mai (Poptones). Ti manca il fiato, o meglio, hai i polmoni secchi da tempo, è un’altra cosa in te che si muove e si manifesta, una parte più profonda, nera come un tumore, un movimento nauseante ma primordiale, una parte più vera, forse, perché far parlare i fantasmi significa anche dirsi che, un tempo, siamo stati umani.

I Pistols non c’erano più, la madre di Lydon e Sid Vicious non c’erano più, i PIL vivevano il loro apice. È il canto del cigno, torturato, «Flowers rotting dead», fiori marci, morti, probabilmente il singolo più estremista mai penetrato nella Top 20 del Regno Unito, invitare la morte nel tempio del pop, un’altra folgore: death disco. “Metal Box” esce poco prima del Natale ’79, per la Virgin, sotto forma di tre quarantacinque giri, non un unico trentatré, tre dischi dentro un contenitore metallico tondo e grigio, di quelli per le pizze cinematografiche: o di come si demolisce un album, «l’idea è non ascoltarlo davvero dal lato uno al lato sei. Metti su una o due canzoni e poi ti fermi» spiega Wobble.

Un anno: l’anno di Fear of Music dei Talking Heads, l’anno di Unknown Pleasures dei Joy Division, l’anno di ivision, l’anno di Y del Pop Group; un solo anno, poi Curtis si impicca e esce postumo Closer, Levene diventa eroinomane, Wobble abbandona i PIL, Lydon diventa un maniaco della televisione. Ci sarà un’ultima grande fiammata con il tormentato e tormentoso “Flowers of Romance (1981), poi la rottura tra Levene e Lydon, segnando di fatto il passaggio definitivo alla fase Lydon-centrica, «era come se John Lydon si fosse ritrasformato in Johnny Rotten» dice Levene.

Quindici anni dopo Rotten rifonda i Sex Pistol per un tour nostalgico, chiudendo il cerchio, distruggendo di fatto tutta la filosofia dei PIL, uno splendido fuoco fatuo.

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