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The Beatles: Get Back

Beatles Get Back

Scheda

GB, Nuova Zelanda, USA - 2021 - Documentario
Durata: 468'
Regia: Peter Jackson


Come avrete letto un po’ dappertutto, è ora disponibile su Disney+ la miniserie “The Beatles: Get Back”, tratta dalle oltre 60 ore di registrazioni che in quel gennaio 1969 vennero prese con l’intento di farne un documentario sulla band. Il risultato divenne prima un film, “Let It Be”, che uscì nel 1970 contemporaneamente all’omonimo disco. 50 anni dopo, “The Beatles: Get Back” porta il tutto ad un altro livello di approfondimento e dettaglio. Volete sapere tutto quello che è successo agli scarafaggi in quei 21 giorni in studio culminati con il famoso concerto sul tetto? Avete a disposizione quasi 8 ore di miniserie. Ora, lasciatemelo confessare candidamente: 8 ore per me sono troppe. Ho difficoltà a capire come chiunque che sia nato dopo l’anno 1960 possa seriamente sciropparsi questa roba, minuto per minuto, 468 minuti per l’esattezza. Ci vuole un livello di feticismo che io, personalmente, non ho nemmeno per la mia pornostar preferita.

Non dubito che altri, tanti, lo possano avere, tuttavia. Ma ho il sospetto che tutti questi critici di ogni nazionalità, Italia compresa, che si stanno spellando le mani di fronte a “Get Back”, ricaschino in quella fascia d’età. Oppure, barano. Non si sono sciroppati 468 minuti uno dopo l’altro, nemmeno scaglionati per 3 come gli episodi, ma semplicemente gli è stato detto, o si sono detti, di cavalcare l’hype e applaudire. Io non ce la posso fare. Personalmente, mentre la band provava e riprovava alcuni dei pezzi decisamente meno originali e fenomenali del loro repertorio, io spingevo il tasto forward per cercare qualche momento memorabile. Eccone alcuni.

1. A 2 (ore) e 13 (minuti) del secondo episodio: mentre i 4 di Liverpool suonano Dig It, Pattie Boyd Harrison sfreccia nello studio sfoggiando un cappotto anni ’60 di una bellezza unica. Non c’è bisogno di essere “fashion victims” per apprezzarlo. Scusate se è poco.

2. La band che esegue For You Blue: uno dei momenti migliori dell’album “Let It Be”, come sembra aver capito persino Yoko Ono che, per una volta in tutte le 6 ore, si vede reagire un minimo alla musica muovendo la testa a tempo con espressione concentrata. Purtroppo il regista della miniserie non condivide la sua emozione e spezzetta la performance.

3. Il dialogo letteralmente rubato con un microfono nascosto della conversazione tra John e Paul sui motivi dell’abbandono (che si temeva definitivo) di George. Dialogo dal quale entrambi appaiono alla fine due ragazzi molto più ragionevoli e meno egomaniaci di come ce li avevano finora disegnati.

4. John e Paul che si lanciano in improvvisazioni “punk” sulle tracce a cui stavano lavorando, accompagnati da un rumoroso Ringo alla batteria. Per poi lasciare spazio a Yoko perché si scateni nei suoi famigerati vocalizzi. Bellissimo e splendidamente punk anche perché è una recita evidente a uso delle telecamere. E mentre loro cazzeggiano in questo modo, George se n’era andato, aveva lasciato il gruppo e, nel casino che fanno i tre rimanenti, il management della Apple seduto in circolo discute il da farsi sul problema. Problema di fronte al quale John fa spallucce e sentenzia: “se non torna entro martedì, chiamiamo Clapton”.  Frase per cui la storia lo aveva condannato alla fama di stronzo e che ora, finalmente, risuona per quel che era: un cazzeggio di uno che, nelle sue parole, “non me ne fotteva un cazzo di nulla. Ero sempre fatto, bello pieno di eroina”. Poi, all’improvviso, risuona una demo di Isn’t a Pity, meravigliosa canzone di George poi terminata sul suo primo album solista. Non è chiaro se la canzone è stata messa lì ad arte dal regista o se ciò accadeva davvero mentre la canzone risuonava in studio, ma si vedono i tre superstiti avvicinarsi, quasi abbracciarsi e decidere di chiamare George e incontrarsi con lui.

5. La riunione in cui si discutevano i piani per svolgere il previsto ritorno live della band nel teatro romano di Sabrata, antica città fenicia che sorge sulle coste della Libia. Surreale, se non fosse che due anni dopo i Pink Floyd avrebbero fatto lo stesso a Pompei, seppur senza pubblico. Il concerto dei Beatles, come noto, si sarebbe poi fatto sul tetto della loro casa discografica e, per la prima volta, “Get Back” ce lo mostra tutto. Comprensivo di 3 versioni di Get Back e due rispettivamente di Don’t Let Me Down e I’ve Got a Feeling. Mi spiace per la mitologia, ma si tratta di tracce che più scontate di così è difficile e inoltre ho visto gruppi di amici miei suonare in cantina meglio di quanto non fecero i Beatles quella mattina sul tetto della Apple. Aldilà del divertimento che ne stavano traendo.

6. La band che fa le prime prove, con spazio per ampi cazzeggi, per Let It Be, la canzone, con John che a un certo punto si sdraia a suonare la chitarra sulle gambe dell’amata Yoko.

E chiudiamo proprio sulla questione Yoko. Ho letto da più parti che il film mostra chiaramente come gli altri 3 non sopportassero Yoko. Nel mio saltare da una scena all’altra questa cosa non mi è apparsa, così come non ho trovato la parte in cui “Paul difende Yoko”, di cui anche ho letto e che andrebbe a suo onore. Mi è apparso invece come Yoko non interferisca mai nel lavoro della band, a differenza della figlioletta della fidanzata di Paul, Linda Eastman. Tuttavia, scrollando in giro, mi sono apparsi i soliti vecchi attacchi alla “presenza inquietante” di Yoko in studio. Attacchi che, ovviamente, sottintendono, da sempre, che la colpa dello scioglimento della band fu sua.

Ora, che gli altri 3 potessero non essere entusiasti di avere la fidanzata di John sempre presente, per quanto silenziosa, lo posso anche concepire. Il gruppo stava insieme da un paio di lustri e una presenza così intensa poteva essere vista come una minaccia e scatenare gelosie. Ci sta. Tuttavia, va detto, che i due si amavano e avevano voglia di stare sempre insieme. Legittimo e direi pure che erano affari loro. Il loro legame non era compatibile con il legame e il matrimonio preesistente tra i quattro? Beh, i matrimoni finiscono, perché le persone cambiano. Fatevene una ragione. Incredibile che la cosa oggi vada ancora spiegata, ma tant’è. Mi viene da pensare che se non avete bisogno che ve lo si spieghi e se siete in grado di accettare a livello emotivo il ragionamento, forse allora non siete emotivamente in grado di sciropparvi 468 minuti di miniserie.

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