1. A Forest
2. Shape Of A Child
3. Blue Roses
4. Dangerous Caress
5. Give
6. Magix
7. Glass House
8. Omens To Come
9. Empire Rising
10. A Thousand Miles
11. Let The Fun Begin
12. The Sharp Edge
Il mondo del pop (come genere musicale) si è disciolto come neve al sole e oggi tutto è e non è pop allo stesso modo. Cosa succede, dunque, quando un album pop viene a galla dove non ci si aspetterebbe? Nello specifico da quei circoli ancora davvero oscuri che la società di massa ancora non si è divorata? Nella peggiore delle ipotesi, resta nascosto quando invece dovrebbe dominare.
“Church Of Imagination” non merita questo destino, perché in tempi giusti sarebbe bollato come “disco pop dell’anno”, e invece non lo si troverà, surclassato da nomi più altisonanti di quello di Karin Park, che nel 2021 ha imperversato, sì, ma nel fantomatico underground (anche questo in pratica evaporato) con i dischi di Årabrot e in collaborazione Lustmord. Ma Park è tanto altro che una regina del sottosuolo, e lo dimostra con una maestria impareggiabile.
Non ci sono St. Vincent e Lana del Rey che tengano, Karin è ad un altro livello pur giocando nello stesso identico campo da gioco. Il disco è un concentrato di melodie elegiache la cui anima è esposta alle intemperie del Grande Nord. Ogni brano è quello che un tempo avremmo definito singolo, composto, suonato, programmato e orchestrato magistralmente. La voce è un geyser in mezzo a distese innevate, capace di ricreare ambienti soul e gospel tanto quanto d’essere radiofonicamente eccelsa.
Il lavoro strumentale ordito assieme a Nick Sheldon e al marito Kjetil Nernes è ineccepibile e dà quel tocco in più in grado di incidere il tutto nella pietra, che si tratti di lambire tratti più rock (Empire Rising rievoca il garage whitestripesiano fondendolo a ruggiti industriali ed è solo un esempio) oppure imbastire reticoli synthpop di rara potenza, il punto è chiaro: ci troviamo al cospetto di un’opera di dimensioni tutto tranne che piccole. Non è un esperimento, bensì un grido assordante lanciato nel nulla e che si dovrebbe propagare gelando tutto sulle ali di una voce unica e tanto potente da frantumare le montagne.
Aprire un album con una cover per voce e archi di A Forest dei Cure è una dichiarazione d’intenti, un rischio calcolato, e riproporla come fa Karin dà la misura di quanto abisso ci sia da queste parti, di come il pop sia finalmente altro da semplice “musica popolare”, sempre che ce ne sia bisogno. In tal caso, la dimostrazione sta tutta qui, in questo scrigno magico di sensazioni distruttive e vellutate, potenti come poche altre.