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“London Calling”: i Clash tra passato, presente ed eternità

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All’interno del fenomeno punk, i Clash hanno rappresentato fin dalla prima ora un elemento di rottura. Sembra una struttura ricorsiva, ma i quattro di Londra si sono posti (e imposti) da subito come punto di discontinuità inserito nel nucleo di un movimento che della discontinuità ha fatto il suo cavallo di battaglia. Fatta eccezione per Paul Simonon, che però verrà ben presto riportato sulla retta via, i Clash si sono formati sulla base di profonde conoscenze musicali, nonché di un attento studio di strumentazione e vocalità.

Mick Jones, ad esempio, è uno straordinario musicista e amante dei generi più disparati, solo in parte di derivazione rock, mentre Joe Strummer, il cantante “strimpellatore”, ha un innato talento nella composizione dei testi. Non ultimo, Topper Headon è soprannominato the human drum machine, per l’abilità nel coniugare potenza e precisione sulle pelli. A livello contenutistico, nondimeno, i Clash non esprimono il nichilismo tipicamente britannico – i cui maestri furono i Sex Pistols – e nemmeno disperazione (New York Dolls) e dissacrazione (Ramones) tanto in voga dall’altra parte dell’oceano.

Nel momento storico in cui le due visioni del punk – europea e americana – si fondono, animando gran parte del cosiddetto movimento del ’77, Strummer e soci sono già oltre. Dopo il folgorante ed omonimo esordio (pubblicato nello stesso 1977) e il mezzo scivolone compiuto l’anno successivo con “Give Em Enough Rope”, i Clash danno vita all’ennesima rivoluzione compiuta dal punk, ma stavolta dal suo interno. Strummer inizia ad appassionarsi alla geopolitica, ponendo particolare attenzione alle tensioni in Nicaragua (saranno il tema portante del successivo “Sandinista!”). Jones invece studia e applica lezioni musicali provenienti dal sud del mondo, con particolare riferimento al reggae e all’universo latino.

Nel momento in cui vede la luce, “London Calling” diventa lo strumento perfetto di cui si serve uno dei più rappresentativi gruppi punk per comunicare a tutti che il punk è morto. Punk, attenzione, inteso come fine ultimo ma non come mezzo: se, infatti, è innegabile ammettere che la lotta sociale fine a se stessa non ha prodotto i risultati sperati (basti pensare alla fine che ha fatto il povero Sid Vicious), da un altro punto di vista dell’epoca punk va preservato lo spirito rivoluzionario. Uno spirito che non deve per forza essere votato a distruggere lo status quo culturale e artistico di un popolo, deve bensì avere l’obiettivo di valorizzarlo, tenendo fuori ciò che davvero è superfluo.

Ecco allora che la playlist proposta da “London Calling” diventa un album di ricordi, resi contemporanei dallo stile Clash. La porta d’ingresso – e primo singolo di questo infinito doppio LP che conta 19 tracce – è la title track, che richiama la frase pronunciata via radio dai militari britannici durante la seconda guerra mondiale. Il cambio di registro è compiuto, completato dall’ulteriore tocco di classe dato dal nuovo stile narrativo, ora più da predicatori che da agitatori sociali:

The ice age is coming, the sun’s zooming in
Meltdown expected, the meat is growing thin
Engines stop running, but I have no fear
Cause London is drowning, I live by the river

Ma è solo l’inizio. Le tematiche affrontate nel disco vanno dal politico al sociale, spaziando tra valori pacifisti, antirazzisti, di difesa degli ultimi del mondo, talvolta scagliandosi contro il modello capitalista imposto dalle multinazionali.

Chi ascolta si trova coinvolto in un miscuglio di generi equilibrato e sapientemente dosato. Si respirano atmosfere tipicamente vintage, echi della prima british invasion che rivive attraverso Brand New Cadillac (cover del leggendario Vince Taylor), Hateful e Four Horsemen, che con Jimmy Jazz chiudono un quartetto che si arricchisce di suoni country e bebop. La musica mediterranea si staglia dolcemente sulle note di Rudie Can’t Fail e Spanish Bombs, quest’ultima scritta sul tema della guerra civile spagnola. Si passa poi dal blues, che sia classico (The Right Profile) o scandito da ritmi ska (Wrong ‘ Em Boyo). Ma la vera sorpresa è il pop melodico, sfoggiato in Lost In The Supermarket, Lover’s Rock e Train In Vain, sonorità che anticipano di qualche anno quelle di moda nel decennio che incombe. E poi c’è il reggae, che con Revolution Rock fa capire quanto quello stile sia sinceramente apprezzato – oltre che magistralmente interpretato – da Mick Jones.

Alla fine arriva anche il punk, quello vecchia maniera ma depurato della cattiveria che avevano le varie White Riot e Clash City Rockers. In Clampdown, The Guns Of Brixton (dedicata alla rivolta proletaria che in quegli anni animò il popoloso quartiere londinese), Koka Kola e The Card Cheat (con tanto di pianoforte) si ha una definizione abbastanza verosimile di ciò che sarà di lì a poco quel ramo del post punk.

Ma un disco non diventa grande senza una produzione curata a dovere. Qui entra in gioco Guy Stevens, tra i più grandi talent scout della storia britannica, uno che Mick Jones vede come una sorta di dio in terra perché è stato l’artefice del successo dei Mott The Hoople, band di cui era fan da ragazzo. La parte più divertente, e al tempo stesso drammatica, del lavoro con Guy era la sua instabilità: si presentava in studio completamente ubriaco, faceva spesso volare sedie e strumenti al solo scopo di creare la giusta tensione compositiva, un modo per tenere sempre acceso il cervello della band. Come se non bastasse, prendeva di mira il fonico di turno, dando vita a violente scazzottate che potevano terminare tanto davanti a una birra ridendoci su, quanto in ospedale. Fatto sta che Guy amava i Clash, era un amore sincero: per nessuna altra band spese le parole di elogio usate per i quattro di Londra. Roba non da poco se si considera il roster passato per le sue mani, dagli Stones ai The Who, passando per i The Small Faces.

La copertina del disco è la degna chiusura del cerchio. Iconica, evocativa, disturbante, nasce di fatto il 20 settembre 1979 al Palladium di New York, un concerto iniziato con la cover del pezzo reggae Armagideon Time di Willie Williams e chiuso con l’incendiaria White Riot. Dopo l’ultima nota, Simonon sta per tornare dietro le quinte ma inciampa nel cavo che collega il suo basso all’amplificatore. Distrutto dalla fatica e dalla frustrazione, Paul scaglia in terra il suo strumento tra le urla di ovazione del pubblico.

La reporter Pennie Smith ha appena il tempo di immortalare il momento, ma la foto esce inevitabilmente sfocata. Lei vorrebbe cestinarla, i ragazzi glielo vietano categoricamente: quella foto sarà la copertina dell’album in uscita. Il lampo di genio, tuttavia, arriva dalla mente di Roy Lowry, grafico al servizio di Strummer e i suoi che i Clash li ha conosciuti a Manchester, dopo un concerto dei Sex Pistols.

Su quella foto in bianco e nero, Roy piazza il titolo dell’album utilizzando il lettering e i colori – rosa e verde – dell’omonimo esordio discografico di Elvis, datato 1956. Nel frattempo The King è morto, ha esalato l’ultimo respiro nell’agosto di quel 1977 che per il movimento punk rappresenta l’apice espressivo ed insieme l’inizio della sua fine. Quella copertina diventa quindi al tempo stesso citazione, omaggio e contrapposizione, allineandosi perfettamente a ciò che il suo contenuto ha già efficacemente comunicato nella sezione sonora.

A ragion veduta, “London Calling” può essere dunque definito un’opera multimediale. Suoni e immagini si fondono e creano un monoblocco che rappresenta un compendio enciclopedico della musica degli ultimi tre decenni. Una summa così totale e completa da essere fonte d’ispirazione per le future generazioni. I vari U2, Nirvana, Pearl Jam, Muse e Arctic Monkeys – citando volutamente una massa eterogenea di esempi – si sono formati mentre i loro membri avevano nelle orecchie la musica dei Clash.    

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