Rieccoci al consueto appuntamento con le classifiche di fine anno, un bel momento per tirare le somme di tutte le uscite discografiche di questi 365 giorni che stanno per concludersi. Questo 2021, un altro anno difficile, è stato ricco di proposte artistiche interessanti, tra grandi ritorni, novità, rassicuranti conferme. Insomma, non ci siamo annoiati nemmeno in mezzo al disagio e allo schifo (ma questo lo facciamo da sempre).
Senza cadere nella tentazione di appiattirci su mode e tendenze dominanti, abbiamo scelto ancora una volta di dare un taglio differente alla nostra visione della musica: forse non noterete gli artisti che potrete trovare in tutte le altre classifiche, ma ci piace pensare che la nostra lista possa darvi diversi spunti interessanti per l’ascolto o per conoscere cose nuove e diverse. O magari vi faranno incazzare, ma siamo pronti a correre il rischio.
Come sempre, le classifiche sono un gioco divertente per la fine dell’anno: non guardatela come una vera e propria classifica, ma più come una guida all’ascolto tra quelle che riteniamo essere le migliori uscite discografiche del 2021.
Ha convinto Greg Puciato e Jesse Draxler, che con la loro Federal Prisoner ne battezzano la venuta su di un mondo che cade a pezzi. Ed il rumore che ne scaturisce potrebbe essere proprio quello di Annihilus. I Darkthrone non sono gli unici a tenere alto il nero vessillo di questo schifoso 2021.
I Big|Brave confermano con decisione la bontà del proprio percorso artistico: in “Vital” il loro modo unico di scrivere, la tecnica e la sensibilità vengono messi in risalto con una cura maniacale. Un disco davvero molto interessante e ricco di spunti misteriosi.
L’urgenza è evidente, palpabile e si fa suono, un suono denso come una pozza di petrolio ribollente in cui si rimane invischiati. Ma non è un senso di prigionia quello che si percepisce nello srotolarsi del disco, anzi, semmai il claustrofobico intreccio elettrico si fa chiave per abbattere le porte, in un afflato liberatorio che ci sgancia dalla contemporaneità
“Cavalcade” è un album da ascoltare per intero, solo così possiamo capire il disegno che forma: una grande prova di ispirazione collettiva che conferma la bontà del progetto black midi. No, non erano una meteora.
Non è solo nostalgia, anzi: a determinare la bontà di “Godspeed” è soprattutto lo spirito di rivalsa di una band che rialza la voce in maniera forte e inequivocabile quando nessuno se lo aspettava più.
Il rock dorme? E i LÜT lo svegliano, ibridandolo con gigatoni di pop-punk, punk rock e basculanti lamate hardcore, di quello che all’ottantiana lotta preferisce il cazzarismo degli anni Novanta ma comunque pungente.
Un album in cui è evidente, e probabilmente più di tanti altri, che meno stramberie sono coinvolte, più la bellezza si affaccerà alla finestra, mostrandosi in tutta la sua maestosità
Anno dopo anno, quello degli Altin Gün diventa sempre meno un omaggio alla musica tradizionale turca e sempre più una creatura che brilla di luce propria, pronta a infestare i dancefloor di tutto il mondo con il suo incontenibile mix di tradizione, integrazione e innovazione
Chris Stewart appare in formissima, la sua scrittura è influenzata in parte dalle atmosfere e dalle sonorità degli anni ’80 complementari alla sua linea vocale corposa, che volano leggere su vibrazioni oscure e delicate, per perdersi come in un bacio lungo e appassionato.
Per gli Old Time Relijun il tempo sembra non sia passato affatto: a distanza di anni la band statunitense mette ancora in luce uno spirito genuino e graffiante, con un disco sensazionale, geniale e dalle prospettive infinite.
Un album assorto e sfocato che stravolge l’idea che ci si era fatti della sua idea di musica travolta dai colpi di machete di una nuova vena polifonica.
Mischiare musica classica e screamo non è cosa da tutti i giorni. Carico di dolore e di malinconia, ‘Vivre Encore‘ è un lavoro cupo ma dotato di una carica fuori dal normale, in cui ogni brano racconta storie di fallimenti e di disagi fisici e interiori.
La musica degli An Autumn For Crippled Children è proprio come la splendida copertina di “As the Morning Dawns We Close Our Eyes“, un’immagine di una malinconia estrema bruciata da una luce che non si placa mai.
Il diamante nascosto in “Qalaq” è il suo essere diversificazione, mondi distanti che si concentrano in punti precisi, esplodono e si quietano, come se fossero dotati di vita propria
Forse il lavoro più soft della band californiana, ma che di certo non ne snatura l’impatto e la filosofia di fondo. Se prima ci andavate di pancia con la musica dei Thrice, adesso dovrete andarci di testa.
Nel momento del bisogno e della bassezza più infima, la cosa migliore che possa capitare, beh, è che band come i Tomahawk compiano quei famosi quattro lustri (o almeno, li compie il loro album d’esordio) e festeggino con un nuovo album.
Un album che si fa apprezzare, che va dritto al sodo senza soffermarsi troppo su momenti melensi, dice la sua senza fare troppi passi indietro. Se il precedenten “Interiors” in qualche modo coccolava l’ascoltatore, qui aspettatevi qualche strattone.
“Little Oblivions” appare una tappa necessaria, per Julien Baker, sulla strada verso la propria consacrazione. La cantautrice magari non spazza via tutto come nel precedente “Turn Out The Lights“, ma si conferma una fuoriclasse assoluta.
Un inferno sonoro in piena regola che in meno di un’ora si porta via tutto, in primis i timpani, poi il resto.
“Black Encyclopedia Of The Air” è un coraggioso invito a guardare dritto negli occhi la propria storia, la propria gente, i propri errori, le proprie vittime ed i propri carnefici e ad affrontare tutto questo con la stessa calma, la stessa decisione e la stessa libertà che caratterizzano il flow di Moor Mother, quella straordinaria poetessa di Philadelphia ancora convinta che le vere rockstar di questo pianeta siano gli alberi e l’aria che respiriamo.
Non esiste una definizione migliore di “epic black heavy metal” per quello che sono i Darkthrone del 2021 ovvero una band che tributa l’heavy metal degli eighties senza mai rinunciare a quell’aura nera che li ha sempre contraddistinti
La voce di Liz Harris emerge sempre limpida e delicata, messa a nudo e illuminata per la prima volta dai raggi tremolanti della propria esperienza personale, raccontando di quei silenzi, dolori e indecisioni che costellano ogni attimo dell’esistenza e che risolvono una volta per tutte il mistero di una identità artistica che è sempre sembrata così perfetta ma distante e che oggi invece si presenta tendendoci finalmente la mano.
Un manto di solitudine ricopre tutto, diventa l’unico vestito da indossare di fronte alla sofferenza. La malinconia l’inchiostro in cui intingere la penna per scrivere qualcosa, vergando della propria esistenza e di tutte le sue sfumature di grigio
La forza dei Really From sta tutta in un paradosso: sanno suonare anti-convenzionali all’interno delle stesse convenzioni musicali. Non è da tutti.
A definirli eclettici gli si farebbe un torto, perché la ragnatela di suoni che intessono gli Squid è forse ben oltre l’eclettismo e basta, è frutto di un cortocircuito elettrico a dir poco enorme che fa esplodere il quadro ed ecco che senza un minimo di hype ci servono sul piatto un disco da pelo e contropelo
Ad oggi possiamo dire che l’eccessiva eterogeneità del precedente lavoro non fosse nient’altro se non la base di partenza per quello che rappresentano oggi gli Årabrot di “Norwegian Gothic“, che già dal titolo e dall’artwork suggerisce un approccio ancora più teatrale ma al contempo ancorato più che mai a certe strutture rock
Si può dire che il cantautorato, mistico genere, sia in crisi? Lo si può dire, sì, ma non di Lukas Frank, anzi, di Storefront Church e delle sue canzoni d’amore struggenti, racconti che lasciano appesi fuori dalla finestra a vedere il mondo restare immobile e sanguinante
In questo nuovo, prodotto da Steve Albini (e si sente), i Cloud Nothings combinano con intelligenza il peculiare timbro aggressivo e violento con una vena pop più matura. Il risultato è una formula perfetta e già collaudata che si dipana in maniera libera e metodica lungo le 11 canzoni che compongono il disco
La sensazione dominante è quella di essere trasportati a largo dall’inarrestabile flusso di pensieri di un ispiratissimo Damon Albarn: il disco è un ritratto sofferto e fedele del periodo piuttosto buio attraversato con coraggio dal cantante inglese negli ultimi anni; un’impeccabile sintesi di nascita, morte, rinascita, fragilità e perdita.
Come nel loro tipico stile narrativo, in “As Day Get Dark” siamo già in epoca post-pandemica. I protagonisti delle undici storie scritte da Moffat si perdono in scenari urbani cupi e piovosi. Sono anime vaganti, con la mente ottenebrata dalla droga e dall’alcol, che si arrendono all’idea di non avere rapporti umani e sessuali.
Aprire un album con una cover per voce e archi di A Forest dei Cure è una dichiarazione d’intenti, un rischio calcolato, e riproporla come fa Karin dà la misura di quanto abisso ci sia da queste parti, di come il pop sia finalmente altro da semplice “musica popolare”, sempre che ce ne sia bisogno.
Sulla scia dei suoi primi lavori, che a distanza di 20 anni sono ancora attuali e di enorme gusto, Jerry Cantrell, con grande stile ed una qualità immortale, ha dato luce ad una nuova perla per veri intenditori.
Taka, Tamaki, Yoda e Dahm scrivono un altro classico istantaneo, pronto a innestarsi in una narrazione che pare infinita. È l’eterno ritorno dei Mono. Qualcosa che pare non doversi spegnere mai.
I nostri mastodontici ragazzi di Atlanta riuniscono i migliori elementi della loro lunga e virtuosa carriera in un lavoro sorprendente che è un vero e proprio sogno ad occhi aperti.
Siamo davanti a qualcosa di diverso e da cui uscire si fa fatica, e il rischio sarà, appunto, quando i singoli pezzi del puzzle si troveranno, da qui in poi a doversi confrontare con il futuro. Intanto “Bloodmoon: I” è giusto che si erga sopra parecchie altre cose uscite quest’anno, o meglio, negli ultimi cinque anni.
Sia fatta la volontà del duo di Duluth, una volontà bruciante e un suono che brulica e gratta la superficie melodica fino a renderla ispida, violenta in una gamma di violenza interiore capace di far trasmigrare l’anima dal metallo all’etere e viceversa, in perfetta soluzione di continuità
Il ritorno in scena dell’ensemble canadese ripercorre la formula presente nei tre dischi precedenti ma con un risultato ancora più sorprendente, terrificante ed emotivamente disturbante: ciò che ne esce fuori è il resoconto di un mondo in sfacelo, una sorta di sinfonia per un’apocalisse sociale e politica più spietata e nera che mai.
Immaginatevi un progetto Pop-Art che diventa un alieno mathcore, un ibrido Haring/Pollock che scopre in sé l’avanguardia punk che verrà, fatta di micro e macro esposizioni alla violenza acustica innata, pennelli, pennarelli, chine e chitarre, tele, sudore e grida. Erano anni che non si sentiva un album così tanto totalizzante e fuori di testa.
I Deafheaven compiono il salto librandosi in una realtà fino a questo momento carezzata e interpolata in un altro sistema operativo, e se vogliamo dargli un nome, ebbene, è shoegaze. Non più un suffisso bensì un intero che racchiude tutta una storia scritta dalle mani di chi ha strappato il velo.
Il migliore dai tempi di “Mr. Beast“, l’ennesimo disco straordinario di una band che non conosce stanchezza.