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Interviste

Tra desiderio e realtà: intervista a Cristina Donà

Foto: Francesca Sara Cauli

Graditissimo e necessario ritorno quello di Cristina Donà, rientrata nel panorama musicale italiano a 7 anni di distanza dall’ultimo album con il nuovo lavoro in studio “deSidera” (qui la nostra recensione). Un disco in cui realtà empirica, desideri e sostanza onirica si intrecciano, creando un cosmo di storie di vita tangibile. Abbiamo incontrato l’artista lombarda per saperne di più sulla genesi del suo lavoro e sui suoi progetti.

Sono passati 7 anni dal tuo ultimo album in studio. Lungaggini dovute ad esigenze di vita o una scelta artistica ben precisa per emanciparsi e sublimare un nuovo stile, forse più sperimentale e intimista?

Mi piacerebbe risponderti che sono stata sette anni senza guardare mail, social, e che mi sono ritirata volutamente su un’isola deserta per trovare l’ispirazione, ma non è così. Ho passato anni tumultuosi per vicende personali, ma anche ricchi di collaborazioni artistiche entusiasmanti. Ero alla ricerca di storie da raccontare che rappresentassero uno stato mentale che spaziava dall’auto osservazione, a ciò che vedevo fuori dalla finestra, alla follia con cui si trascina una parte di questo mondo alla meraviglia che siamo, alla magia a cui apparteniamo. Sicuramente sentivo l’urgenza di scendere nelle viscere più che in passato. In questo processo d’indagine speleologica dell’umano sentire, mi ha aiutato e influenzato molto la lettura di Simona Vinci, che trovo una scrittrice straordinaria per come affronta la parte più dolorosa e complessa delle nostre vite.

Come hai ritrovato la scena musicale italiana dopo questo periodo di assenza?

Costellata di proposte interessanti: La Rappresentante di Lista, Margherita Vicario, Emma Nolde, …e tanti altri. Le proposte sono infinite, bisogna aver molto tempo a disposizione per cercarle e ascoltarle. Uno degli aspetti che mi inquieta di più, se penso a chi inizia ora, è che in questa giungla affollatissima non è facile destreggiarsi e trovare il modo di farsi notare con la propria personalità. La questione che mi allarma è quella legata al sensazionalismo, ovvero che in musica, come in altri settori legati alla comunicazione, si possa emergere solo attraverso gesti e messaggi eclatanti o esagerati o omologati. Una proposta originale fuori dal coro che non è per forza eccessiva… fa un pochino più fatica, ma forse è sempre stato così.

In “deSidera” ho trovato una dicotomia ossimorica tra il desiderio spirituale, dell’ineffabile, ma che se trasceso in termini materialistici, si trasfigura in prodotto consumistico, in surrogato del desiderio stesso. Il centro commerciale, raccontato in Distratti, è allegoria di tutto ciò. Com’è nata l’idea di affrontare queste tematiche?

Negli anni, grazie a tanti articoli letti sul consumo critico, e alla convivenza con un compagno speciale, mio marito Davide Sapienza, geopoeta, scrittore e appassionato ricercatore del rapporto tra uomo e territorio, ho cominciato ad osservare me stessa in relazione al contesto in cui mi muovo, a ciò che compro, desidero comprare, possedere, consumare, e mi sono resa conto di quanto sia complicato discernere ciò di cui abbiamo bisogno da ciò che è superficiale. Le nostre consuetudini sono spesso viziate, vizi socialmente accettati. Naturalmente non si tratta di prendersi tutte le responsabilità, sarebbe assurdo. Gli stimoli che ci guidano hanno interruttori nascosti e sono in mano a entità commerciali gigantesche, che hanno tutto l’interesse a renderci dipendenti da un certo stile di vita. Mi piace pensare che un po’ di potere con le nostre scelte possiamo ancora esercitarlo e ricordare che tutto è connesso, anche quando pensiamo che non lo sia.

Foto: Francesca Sara Cauli

Senza fucile né spada racconta perfettamente la tragedia del Covid, i suoi effetti drammaticamente tangibili e quelli meno visibili, più interiori. Come hai vissuto i periodi di lockdown e quanto hanno influito sulla genesi del tuo disco?

Il materiale da cui abbiamo attinto per i brani del disco è stato tutto scritto prima della pandemia, tranne Senza fucile né spada, unica canzone nata durante il primo lockdown. Io abito in Val Seriana, da più di metà della mia vita, quello che è successo qui è descrivibile come una vera e propria apocalisse che ho voluto raccontare in quella canzone per lasciare la mia testimonianza di una tragedia avvenuta anche a causa della mala gestione. Una strage a cui abbiamo assistito inermi. È stato molto, molto doloroso e difficile, in mezzo alla natura che fioriva e respirava. Un paradosso dai contrasti fortissimi. 

Un altro brano che mi ha colpito molto è Come quando gli alberi si parlano. La sublimazione in musica di un fatto drammatico, un amore borderline che cerca di realizzarsi nell’estremità di un gesto irreversibile. La morte come parossismo dell’assurdo e dell’eternità. Cosa ti ha ispirato? Un tuo pensiero a riguardo?

Ho raccontato una storia realmente accaduta nel periodo in cui frequentavo il primo anno all’accademia di Belle arti di Brera. Una studentessa al quarto anno e il suo fidanzato hanno deciso di togliersi la vita insieme, nel garage della ragazza. Le poche notizie che ci sono arrivate attraverso un professore molto legato alla studentessa, sembravano dire che il suicidio fosse legato alla volontà di unirsi per sempre, in un momento in cui il loro amore si sarebbe trovato a un bivio, per questioni che non ho mai saputo. E’ una storia che avevo evidentemente archiviato perché non la capivo. Nell’indagare la nostra parte più oscura e fragile devo aver sganciato l’ancora che teneva questa vicenda ben fissa su qualche fondale della mia memoria. Forse quel gesto non è stato guidato da un motivo preciso, forse erano tanti tasselli mancanti, una trama che nessuno poteva né vedere, né immaginare, come la conversazione tra le piante, silenziosa ma potente.

Dal punto di vista strettamente musicale, ho trovato il disco più stratificato che in passato, con arrangiamenti più elaborati, per certi versi più sperimentale, soprattutto nell’uso dell’elettronica. È stata una scelta ragionata o in divenire? Ci racconti com’è andato il processo di produzione del disco?

Di ragionato a tavolino in “deSidera “non c’è molto se non l’idea, sin dall’inizio, di usare suoni sintetici, elettronici e di lasciarci guidare dai risultati che piano piano sarebbero emersi. L’utilizzo dell’elettronica mi ha attratta come se il racconto della mia voce, delle mie parole potesse trovare casa solo in un ambiente contaminato da impronte aliene, meccaniche. Immaginavo un matrimonio macchina-donna, dove l’una scivola nell’altra pur mantenendo le proprie identità.  Di esempi nella musica ce ne sono tantissimi, io, noi, volevamo trovare il nostro modo e, in questo senso, Saverio Lanza ha fatto un lavoro incredibile. È partito vestendo le mie parole, anche poche, esaltando il loro significato attraverso gli arrangiamenti, i suoni, come un sarto che si preoccupa di cucire l’abito giusto per esaltare la forma, con un processo certosino. Via via i personaggi che indossavano questi abiti, hanno cominciato ad animare il palco e svelato la scena. Così, piano piano, si è palesata l’atmosfera di ogni brano, poi del disco intero.

Tornando un po’ indietro nel tempo e ripercorrendo la tua carriera trentennale: tante sono state le collaborazioni che hai intrapreso negli anni. Ce n’è qualcuna che ricordi con più piacere o quella che più ti ha influenzato e accresciuto artisticamente?

Perdona la risposta un po’ banale ma sono davvero molto grata a tutti gli artisti con cui ho collaborato.  Per non dover fare un elenco interminabile cito volentieri i produttori, che hanno “insonorizzato” il mio mondo: da Manuel Agnelli a Davey Ray Moor, da Peter Walsh a Saverio Lanza. Tra i musicisti, Robert Wyatt che è fuori categoria, e l’amico, e straordinario batterista e compositore, Cristiano Calcagnile. Ginevra Di Marco e Francesco Magnelli, Isabella Ragonese, Daniele Ninarello, ma credimi, è difficile scegliere. Mi viene anche da citare Ken Stringfellow, ex tastierista dei R.E.M, con il quale ho fatto un tour europeo, e tanti tanti altri.

Un’ultima domanda: sei in tour nei teatri per presentare il tuo nuovo lavoro. Cosa possiamo aspettarci da questi concerti?

Due musicisti sul palco che suonano come una band con tanta voglia di intonare i viaggi che sono all’interno delle canzoni di questo ultimo disco, ma anche degli album passati. Troverete me, Saverio e sua maestà “l’elettronica preistorica”. Troverete quel mistero che è lo spettacolo dal vivo, che da un po’ mi piace chiamare “respiro comune”.

Foto: Francesca Sara Cauli

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